Se le prove generali
vanno bene, lo spettacolo non lo farà. E' matematico. Inconfutabile.
Verificato troppe volte per non aver chiaro sin dalle quattro del
pomeriggio che la mia performance non sarà poi 'sto granchè.
Eppure, neanche dei pasticci oggi mi importa molto. E' che il giorno
del saggio di flamenco, a me, piace comunque. Sempre. A prescindere.
Ben al di là di come vada o non vada. Mi piace dal momento del
ritrovo in un piazzale asfaltato. Il sole cocente a sciogliere i
nervi in una sonnolenza collettiva. Lo chignon basso, ahimè, già
da rifare. E poi i discorsi su pranzi lesinati e leggeri. Trangugiati
in fretta, troppo presto, controvoglia, mentre in testa ti ti
martella un brano di Serrat.
Oggi, per la prima volta
da due giorni, la spazzola non ha trovato
rimasugli di forcine tra i capelli. Ed io ho
capito che ve lo volevo raccontare. Sì, insomma, dire dei problemi,
chiusi in casa a doppia mandata almeno cento universi più in là.
Lontani da questo mondo meraviglioso dove tutto è bello ordinato in
scafalature da dodici tempi l'una. E, sulla
porta di un camerino a caso, qualcuno ha aggiunto in fucsia la parola
“Triana!”. Mi viene voglia di partire, adesso, ancor di più.
Mentre le immagini di un'Andalucía da
cartolina accompagnano in un video i versi di Antonio Machado. E le
note delle sevillanas mi ricordano la feria, la
voglia di far programmi, il vestito da scegliere per muovere i miei
passi in Calle Larios. Tornare alle origini, al cartello con sú
scritto Calle Nueva (qué borrachera, qué borrachera), all'Erasmus,
alla parte migliore di me. I fiori arancioni in testa, immagine
dell'allegria. Ecco, anche di questo vi volevo parlare.
Della
confusione intrinseca dei ritmi. Della Soleá por Bulería ripercorsa
nella mente sulle note di Ehi Jude
trasmessa da Virgin Radio. E poi delle
movenze Dance abbozzate nei corridoi del retropalco, per smorzare la
tensione, sul sottofondo di una bulería. Incrociare uno sguardo
perplesso. Giustificarsi in un “ormai sto delirando”, e scoppiare
a ridere di vero cuore.
Perché del
saggio di flamenco, alla fin fine, a me é soprattutto questo che
rimane. La socializzazione facilitata da una vicinanza forzata. I
gossip da camerino. Il buen rollo e i mucha mierda urlati
a squarciagola non appena le lancette si avvicinano alle nove.
Restano il prima e il dopo, piú che il durante
semi-inconsapevole in cui batti i piedi su quel palco. E ci sono solo
il legno. I piedi. Il tuo occhio reso orbo da un faro troppo
accecante e i tanti altri occhi funzionanti che, anche un po' a causa
di questo, non vedrai mai.
Applausi.
Restano i
momenti epici. Quelli da cui é facile estrapolare aneddoti di
impronta vagamente leggendaria. Tipo le note di Funiculí
Funiculá, rivisitate in chiave flamenca, al centro di una crisi
nelle prove generali. I dialoghi tra miopi, e “non mi fare cenni,
perché non ti vedo”. O l'avvenenza di quel tecnico di palco
(audio? Luci? Francamente non ne ho idea) che mi fa capire, in un
risveglio ormonale, che alla faccia del clima l'estate é vicina.
Allora é tempo di mangiar ciliege, di dormire su una sdraio con le
cuffie nelle orecchie e il tuo costume rosso uguale uguale a quello
della tipa della Kellogs.
Ecco: é per
tutto questo, per quest'allegria incontenibile, che vale ancora e
sempre la pena ballare. E a mó di post scriptum sono lieta di dirvi
che forse mi sbagliavo. Che forse neanche quell'altra, di passione, é
finita come credevo. E' bastato ascoltare una canzone. Innamorarmente
perdutamente. Premere di nuovo play.
te l'ho già scritto in tutti i post flamenchi!:-) si sente che è tuo...ti appasiona...ce l'hai nel sangue...e questi racconti ti escono divinamente
RispondiEliminabesossss
kitolè
Troppo buona, insistolé!
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