domenica 9 giugno 2013

Soleá por Bulería (flash da uno spettacolo)

Se le prove generali vanno bene, lo spettacolo non lo farà. E' matematico. Inconfutabile. Verificato troppe volte per non aver chiaro sin dalle quattro del pomeriggio che la mia performance non sarà poi 'sto granchè. Eppure, neanche dei pasticci oggi mi importa molto. E' che il giorno del saggio di flamenco, a me, piace comunque. Sempre. A prescindere. Ben al di là di come vada o non vada. Mi piace dal momento del ritrovo in un piazzale asfaltato. Il sole cocente a sciogliere i nervi in una sonnolenza collettiva. Lo chignon basso, ahimè, già da rifare. E poi i discorsi su pranzi lesinati e leggeri. Trangugiati in fretta, troppo presto, controvoglia, mentre in testa ti ti martella un brano di Serrat.





Oggi, per la prima volta da due giorni, la spazzola non ha trovato rimasugli di forcine tra i capelli. Ed io ho capito che ve lo volevo raccontare. Sì, insomma, dire dei problemi, chiusi in casa a doppia mandata almeno cento universi più in là. Lontani da questo mondo meraviglioso dove tutto è bello ordinato in scafalature da dodici tempi l'una. E, sulla porta di un camerino a caso, qualcuno ha aggiunto in fucsia la parola “Triana!”. Mi viene voglia di partire, adesso, ancor di più. Mentre le immagini di un'Andalucía da cartolina accompagnano in un video i versi di Antonio Machado. E le note delle sevillanas mi ricordano la feria, la voglia di far programmi, il vestito da scegliere per muovere i miei passi in Calle Larios. Tornare alle origini, al cartello con sú scritto Calle Nueva (qué borrachera, qué borrachera), all'Erasmus, alla parte migliore di me. I fiori arancioni in testa, immagine dell'allegria. Ecco, anche di questo vi volevo parlare.

Della confusione intrinseca dei ritmi. Della Soleá por Bulería ripercorsa nella mente sulle note di Ehi Jude trasmessa da Virgin Radio. E poi delle movenze Dance abbozzate nei corridoi del retropalco, per smorzare la tensione, sul sottofondo di una bulería. Incrociare uno sguardo perplesso. Giustificarsi in un “ormai sto delirando”, e scoppiare a ridere di vero cuore.



Perché del saggio di flamenco, alla fin fine, a me é soprattutto questo che rimane. La socializzazione facilitata da una vicinanza forzata. I gossip da camerino. Il buen rollo e i mucha mierda urlati a squarciagola non appena le lancette si avvicinano alle nove. Restano il prima e il dopo, piú che il durante semi-inconsapevole in cui batti i piedi su quel palco. E ci sono solo il legno. I piedi. Il tuo occhio reso orbo da un faro troppo accecante e i tanti altri occhi funzionanti che, anche un po' a causa di questo, non vedrai mai.

Applausi.

Restano i momenti epici. Quelli da cui é facile estrapolare aneddoti di impronta vagamente leggendaria. Tipo le note di Funiculí Funiculá, rivisitate in chiave flamenca, al centro di una crisi nelle prove generali. I dialoghi tra miopi, e “non mi fare cenni, perché non ti vedo”. O l'avvenenza di quel tecnico di palco (audio? Luci? Francamente non ne ho idea) che mi fa capire, in un risveglio ormonale, che alla faccia del clima l'estate é vicina. Allora é tempo di mangiar ciliege, di dormire su una sdraio con le cuffie nelle orecchie e il tuo costume rosso uguale uguale a quello della tipa della Kellogs.

Ecco: é per tutto questo, per quest'allegria incontenibile, che vale ancora e sempre la pena ballare. E a mó di post scriptum sono lieta di dirvi che forse mi sbagliavo. Che forse neanche quell'altra, di passione, é finita come credevo. E' bastato ascoltare una canzone. Innamorarmente perdutamente. Premere di nuovo play.




Ho comprato un biglietto per andare a vedere Dani Martín a Barcellona, il prossimo 20 Dicembre. Forse, alla fin fine, non cambieró mai.  

2 commenti:

  1. te l'ho già scritto in tutti i post flamenchi!:-) si sente che è tuo...ti appasiona...ce l'hai nel sangue...e questi racconti ti escono divinamente
    besossss
    kitolè

    RispondiElimina