Credo sia quasi un
richiamo ancestrale. Non me lo spiego altrimenti, il senso di
liberazione a cui s'abbandonano i corpi attorno a me. Di colpo
l'euforia mi prende gli occhi. Riempie orecchie, sensi, cuore. E
intanto ballano, ballano tutti. Una signora brasiliana che m'ero
abituata a vedere in veste seriosa. L'attore di un film. La ragazza
di Bologna. Qualche altra mia collega che non avevo avuto modo di
conoscere ancora. Ché a volte non serve neanche più la melodia. A
volte basta il ritmo. E' tutto lì.
C'ero andata leggermente
controvoglia, a quella premiazione. Sì, insomma, pioveva a dirotto.
Meteorologi allarmisti insistevano, sbagliando, su temperature
prossime allo zero. Poteva davvero un'altra cerimonia competere col
caldo del divano di casa?
Sì. Perchè lo
sottovaluto sempre, il potere trascinante dell'entusiasmo latino. Le
urla di trionfo di una famiglia peruviana seduta davanti a me. La
partecipazione commentata in tono allegro davanti ad ogni singolo
premio. Tendo a dimenticarla, quella loro voglia di vivere a voce
alta. La frenesia di gioia che, dai colori alle cadenze, pare
esplodergli dentro ad ogni dettaglio. Al di là delle apparenze. Dei
“che cosa penseranno”. Delle occhiate critiche – e tutte
italiane- a chi magari ti siede vicino.
E' che non era affatto
un'altra cerimonia. Piuttosto, era un ritrovo di quel tipo di
gente che riesce in qualche modo a farmi sempre stare bene. Stavo
giusto mettendo a fuoco il concetto, quando la Banda Berimbau ha
fatto irruzione in scena.
Tamburi, solo questo.
Percussioni combinate in un crescendo assordante di allegria. Stanno
lì, con le loro maglie gialle. Lì, stipati su di un palco che si
accingono a lasciare. Scendono tra la gente, la guidano suonando
verso il bar. E poi dal bar al palco, mentre ormai nessuno è ormai
più seduto dov'era. A volte basta il ritmo. Ti scuote il corpo da
dentro, porta via i pensieri nel tuo muovere le anche. Un rivolo di
sudore su cui scorre via lo stress.
Per qualche breve
istante, mi viene in mente il flamenco. Quello che riesce ad
apportare alla mia vita battere i piedi a terra per due ore a
settimana. Immagino fusion bizzarre in dodici tempi, e poi mi scappa
da ridere da sola. Dai, com'é possibile che esistano ancora gli
ansiolitici? Come, se c'è sempre il tempo per ballare?
Ieri sera si è in
qualche modo conclusa un'altra esperienza che definirei “lavorativa”.
L'ha fatto davanti a pizzette e pasticcini, nascosti da un cartello
con su scritto “staff only”. Lì mi sono trovata a chiacchierare
con persone viste sì e no due volte, e che però sembrava conoscessi
da una vita. Di quelle con cui non ti ritrovi in imbarazzo neanche un
solo attimo, fiera di un comune amore per la lingua. Per culture
lontane. Per luoghi altri, eppure sempre un po' più tuoi di quello
in cui ti trovi. E, senza che me ne accorgessi, in un lampo s'è quasi fatta l'una. L'attore, quello che prima ballava, ha impugnato una
chitarra nel teatro ormai mezzo vuoto. Come se avesse capito; come se
pure lui sapesse che adesso sì, adesso era il momento di aggiungerci
melodia.
Finisce un festival cinematografico. Addio giornate passate a guardar trailer, cercare notizie ed aggiornare pagine di facebook. Eppure, mentre varco la soglia, sento che mi dispiace un po'. Questione di tamburi, suppongo. Tutta colpa di un richiamo ancestrale.
Nessun commento:
Posta un commento