Revival.
Deja vù. Trauma infantile. Chiamatelo un po' come volete: resta il
fatto che oggi
essere qui mi sembra strano. E per oggi, in realtà, intendo Domenica
scorsa. Per “qui”, la pavimentazione in sampietrini che mi ha
fatta desistere dal tacco. Quella in cui sembra raggrupparsi l'unico,
chiassoso, esempio di umanità residua. Chè ha aspetto post-atomico,
oggi, Monfalcone. Il sole impietoso disegna contorni troppo nitidi
all'edificio bianco del teatro. Tutt'attorno, serrande abbassate.
Qualche abitante del Bangladesh a bordo della solita bici.
Un'improbabile comitiva di ultra settantenni in costumi folklorici a
farmi sospettare d'allucinazioni. Non posso fare a meno di notarlo:
indossano calzini in lana. In lana, capite? Ora che, dal termometro,
mi stanno deridendo più di 35 gradi.
Non può essere vero. Dai, sto senz'altro male. Malissimo. In effetti, credo che potrei svenire da un momento all'altro. Al solo pensiero mi fermo un secondo, prima di attraversare la piazza. Mi godo gli ultimi due centimetri d'ombra che qualche cornicione sembra essere in grado di concedermi. Un soffio d'aria troppo delicato per darmi refrigerio, eppure sufficiente a distruggere ciò che resta del mio defunto chignon. Impreco, e già mi sono pentita. Di tutto, a dire il vero. Di aver accettato di ballare anche stasera. Di essermi svegliata troppo presto. Di non aver accettato quel passaggio in auto al grido di “una passeggiata la faccio volentieri”. Brava scema. Potevo anche pensarci, che i negozi erano chiusi. Sospiro di imprecazioni mute, gli occhi che si abbassano in direzione delle balze a fiori. Ecco: della mia mise, almeno, sono soddisfatta. L'ho sempre amato, questo vestito. Almeno quanto amo i ricordi a cui mi trasporta, a un entusiasmo che mi sembra ogni giorno più lontano. Alle goccioline d'acqua nebulizzata al Café e Tea di Plaza Colón. Al pezzo di cavo che ancora conservo, cuffie degli Studios Monteprincipe, furgoncini semi-blindati, le note a luci soffuse di una canzone che amo.
Perché
é cambiato tutto? Perchè sono cambiata io?
Basta,
la devo smettere di pensarci. In fondo é solo questione di trovare
qualcosa che ti restituisca quel sorriso. Una copia imperfetta di
sensazioni leggermente piú mature. E' questione di star bene, e io é
ormai da un po' che ho giá capito come fare. Quando poi cambieró la
suoneria del cellulare, saprete tutti che l'avró accettato.
Fine
delle paranoie, allora. Punto e capo. Uno di quei modi, in fin dei
conti, é anche ballare. Anche se non sono agitata. Anche se rischio
di addormentarmi ogni volta che il mio sedere incontra superfici
piatte. Tipo il gradino- premessa alla porta di un bar.
Ché
ho attraversato, finalmente. Ho salutato frettolosa qualche faccia
famigliare, posato a terra la mia aria disfatta, una borsa da mare,
una bottiglietta d'acqua ormai giá vuota a metá. Poi, sono stata
inghiottita da un'orda di bambine iperattive. Non so se mi causino
piú tenerezza o irritazione, a dire il vero. Certo, mi ci rivedo. I
saggi delle scuole di danza, si sa, sono sempre stati un mondo a
parte. Io ero come loro, probabilmente. Correvo con le amichette, in
attesa che una porta si aprisse. Nervosa. Adrenalinica. La
disperazione di una madre. Sono carine, in effetti. Tutte con i loro
chignon, in condizioni di molto migliori del mio. I tutú giá
indossati a metá, qualche trucco chiuso in un beauty case. I sorrisi
di chi, per un giorno, sa di essere al centro dell'attenzione. Sto
per optare per la tenerezza, quando due di loro si avvicinano
chiamandomi
signora.
E
basta a farmi cambiare idea.
Comunque,
sono un po' ingiusta. Ché, con tutta 'sta premessa, starete pensando
che lo spettacolo di Monfalcone sia stato uno schifo. Che ve lo stia
raccontando per lamentarmi, magari, che ne so. Invece. Il punto é
che é sempre la stessa storia: quanto meno mi aspetto, piú mi
diverto. Quanto piú voglio rinunciare, piú mi rallegro, invece, di
aver accettato. Nonostante il mal di testa dovuto a quelle urla
stridule. Nonostante i camerini improvvisati, dove ogni strip tease
sembra a beneficio dei pompieri di passaggio; e i bagni in cui
rifugiarsi puzzano di cadavere in stato di avanzata decomposizione.
Insomma, nelle mie limitazioni ballo bene. Penso meglio di quanto non abbia mai fatto. E' come se la musica mi avesse finalmente posseduta. Se il concetto di ultima esibizione dell'anno bastasse da solo a riempirmi d'adrenalina. Ma non é soltanto questo. Anzi. Come sempre, nella prospettiva di un palco, il palco in sé é quello che importa di meno.
E
io, di Domenica, ricordo le chiacchiere al bar, davanti a
bottigliette tutte uguali di tea freddo. Gli occhi che prendono a
lacrimarmi inarrestabili, colpa di sbalzi termici e residui di
trucco. Cristina che scatta foto. Io che sembro disperata. Cristina
che scatta altre foto. E un tizio che ci guarda, vistosamente
perplesso di fronte a quel quadretto surreale: sei donne, in una via
del centro, posano per uno scatto in pose flamenche. Una di loro, la
piú stramba, ha i lacrimoni evidenti sulle guance, e forse pure i
moccoli al naso. Immagino la faccia della moglie, quando gliel'avrá
raccontato.
In
effetti sarebbe gentile, da parte nostra, andare a trovarlo in
manicomio.
Comunque.
Sará stato anche strano, ritrovarsi in quel teatro dopo tutti questi
anni. Al saggio di una scuola di danza, di quelli lunghi tre ore che
tanto detestava mio padre. Strano, sí, decisamente. Ma “strano”
- ormai lo so – non vuol mai dire brutto o inopportuno. Strano vuol
dire spassoso, anzi, nella maggior parte dei casi.
Tra
l'altro, due bimbe mi hanno dato la manina, prima di uscire per i
saluti finali.
“Che
bella che sei!”, hanno detto in coro.
E'
stato il riscatto meglio riuscito dell'intera categoria infantile.
...un" che bella che sei"..detto da delle bimbe...è in assoluto il miglior complimento sincero e disinteressato del mondo!
RispondiEliminaBRAVAAAAAAA
kit
...ma forse erano bimbe molto miopi! :P
RispondiElimina