Capita che ti trovi al
molo quarto, sotto quella fastidiosa pioggerellina sottile a cui sei
ormai tristemente abituata. Su di uno striscione bianco, la scritta
“State of the net” ti ricorda la ragione per cui sei lì. Lo
oscura parzialmente un giornalista, credo sia de Il Mattino. A pochi
passi dall'ingresso, sbraita al telefono qualcosa che ha a che fare
con l'incompetenza, twitter e un pezzo da scrivere in fretta.
Incrocio uno sguardo perplesso con quello di tre hostess che avranno
ad occhio e croce la mia età. Iridi parzialmente divertite esternano
un silenzioso (ma palese) “Mio Dio!”. Lo condivido in un sorriso,
ed entro alla ricerca del mio pass.
Dentro, l'ambiente ha il
candore asettico della professionalità. La fila al bar allestito per
l'occasione, uno schermo piatto, una sala più buia. Mi ricorda la
BlogFest, e certo non a caso. Tempo di assistere ad una conferenza
già iniziata. Poi, m'apparto su una sedia bianca durante la pausa
caffè. Perchè capita che bastino pochi minuti per stilare
importanti conclusioni. Del tipo che:
- Capisco ancora l'inglese parlato (gaudio e tripudio, brodo di giuggiole, soddisfazioni varie)
- Chiedere all'Italia una rete wifi il cui segnale non cada in continuazione è più o meno come chiedere ad uno spagnolo di rinunciare alla siesta. E cioè sbagliato. Contronatura. Sostanzialmente, quasi impossibile.
- Cimentarmi nel live tweeting mi diverte. Mi sprona alla sfida con me stessa. Coinvolge doti letterarie, capacità di sintesi, traduzione simultanea. Stimola, soprattutto, il mio innato istinto di competizione. Obiettivo: cogliere il succo del discorso nel minor tempo possibile. Trascriverlo in lingua italiana, restando al di sotto del 140 caratteri (imprescindibile lasciare spazio per commenti e RT manuali!). Pubblicare prima degli anonimi competitors seduti accanto a te. Bearsi dell'eventuale riuscita. Sempre e quando non cada il wifi.
Capita che tu ti renda
conto, all'improvviso, che il lavoro che fai ti piace un bel po'. Che
sei fortunata, malgrado quella sensazione acida che ti prende allo
stomaco in un risveglio domenicale. Ormai ti ci sei abituata. Sì,
anche a lei, come a quella pioggerellina. E ti gira nella testa un
verso di Cemento Armato. Sempre quello, però in spagnolo. Così ti
viene in mente che dovresti darti da fare per cercare qualcuno che ti
accompagni al concerto del Cile a Treviso.
O magari a quello di Prato, se proprio non
c'è alternativa. Prato. Prati. Prados. De violetas. Y
tú...
Basta.
Capita che t'infili sotto la doccia, nel gesto meccanico di ogni
mattina. E di colpo aspiri a lavarci via le sensazioni sgradevoli
provate il giorno prima. L'acqua é sempre stata simbolo di
rinascita, giusto? Ti levi in uno “squash”, fingendoti un po'
Venere in eccessi di immodestia. Qualche lacrima in piú, tanto per
fare. E la voglia disperata di cambiare qualcosa. Sí, ma cosa? Forse
la mia vita non é poi cosí male, tutto considerato.
La mente
torna a Riva del Garda. Due giorni prima di adesso. Uno, prima della
pioggerellina al Molo quarto. La sala della biblioteca, gremita di
persone. Di ragazzi con la voce un po' tirata dalla timidezza. Una
sala gonfia di silenzi attenti che per me valgono piú di applausi.
L'interpretazione teatrale di alcuni brani estratti dal mio libro.
Mentre devo guardare altrove, pur di non commuovermi. Il mio libro.
Il mio orgoglio. Poi, uno spritz. La salsina buonissima, appena un
po' piccante, da versare sopra alle patatine. La crema catalana in
quel ristorante a cui andiamo sempre. Mia madre che cerca di
accasarmi. Io che rido.
No, non é
male per niente, la mia vita. Capita che me ne accorga, ogni tanto.
Soprattutto quando esce il sole. E al molo quarto, oggi, é piú
piacevole l'atmosfera di State of the net. Oggi che, alla pausa
caffé, puoi svaccarti in solitudine sui gradini. Sentirti baciata da
quei raggi ancora un po' effimeri, e ricordare i tempi
dell'universitá. Dei gossip guardando il mare. Delle cotte, dei
progetti, delle idee di futuro. Quelle che, tutto sommato, hai
ancora.
E allora ti
rialzi pigramente. La voce di qualcuno che ti richiama all'ordine. Il
pass con le iniziali e il nome dell'azienda. La volta che, da bimba,
pensavo che essere una donna in carriera significasse per me tingermi
i capelli di rosso. Chissá poi perché.
Capita che
ci sia un vestito da accorciare. Una coreografia da ripassare.
Un'estate di concerti che, anche se sembra lontana, sta per arrivare.
E, tra un mezzo di trasporto e l'altro, tra una parentesi da chiudere
e un'altra da aprire, ti ritrovi ad ascoltare in nuovo disco di Rulo.
Molto simile al precedente, a dire il vero. Stesse strutture nelle
canzoni. Stessa predilezione per i paradossi. Stessi sound, con
qualche rara eccezione. Eppure, piacevole. Forse proprio in virtú
del suo essere rassicurante. Forse perché, come un po' tutto quello
che mi piace ultimamente, é in linea col lief motiv della
malinconia. Una manciata di canzoni, in particolare, mi s'insinua
oltre la pelle. El Mejor Veneno, Buscando el Mar, mi pequeña
cicatriz … E poi “el vals del adiós”, coi suoi riferimenti a
Piazza Garibaldi che mi ricordano Parma e certe strofe qua e lá che
mi fan dire “sono io”. E se di un brano dici “sono io” quel
brano ha giá portato a termine la sua auspicata missione.
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