Avvertenza: post pubblicato in differita.
C'è un che di imperscrutabile, nella musica dal vivo. Come una sorta di scintilla che, nei giorni fortunati, si accende tra il pubblico e il performer. Potrei provare a descriverla per giorni. Riempirci fogli a quadretti o cartelle di word. Cercare di capire da dove viene, come si crea, che cos'è. Ma la verità è che non ci riuscirei. E' stato questo a rendere il concerto di Valencia migliore di quello di Barcellona. Non la dedica, non le emozioni aggiunte di una tappa conclusiva. Solo quello che i flamenchi definirebbero "duende"; l'essenza irrazionale che ha connesso i cuori. Solo le facce accese, sin dal primo accordo, di una gioia pura. Barcellona è stato un compito svolto in maniera impeccabile. Valencia, lo stesso show dopo iniezione d'anima.
Chè poi, parliamoci chiaro: l'età per un doblete, ormai, non ce l'ho più. Non per viverlo così, almeno. Troppe poche ore di sonno. Troppe ore di fila. Troppi mezzi di trasporto per non svegliarsi nel cuore della notte con l'ansia di non capire in che città ti trovi.
Oggi, seduta su di un regionale veloce diretto a Venezia Mestre, i postumi li sento tutti insieme. Ho il sedere appiattito dall'asfalto, lo stomaco sconvolto da alimentazioni indegne e irregolari, il retro-coscia provato dalle corse alle transenne. E ancora gli occhi che si chiudono da soli; il mal di collo da prima fila; la concentrazione in fuga perenne, in bilico tra sogni disconnessi fatti con la testa appoggiata a un finestrino. "Chi me lo fa fare?" lo penso ogni volta che imposto la sveglia, e il dannato countdown del vecchio Nokia segna irremovibile numeri inferiori al sei.
"Chi me lo fare?", quando il diluvio universale sceglie di abbattersi fuori dal Palau Sant Jordi. E non c'è una tettoia dove ripararsi, un k-way giallo sotto cui rifugiarsi, un barbone qualsiasi a cui rubare un cartone.
"Chi me lo fa fare?", ché sono così stanca da vagare per un'ora attorno a Plaza Tetúan: due metri circa da uno degli hotel piú belli in cui io abbia alloggiato in tour. Certificato di Eccellenza Tripadvisor. Un hotel che - chissá come - non riesco piú a ritrovare. E la piantina si piega al contrario. Le indicazioni dei passanti scivolano via dai miei ricordi. La frustrazione si sfoga in fastidio ogni volta che un cartello rivendica indipendenza a strisce rosse e gialle verticali. Mannaggia ai catalani. Dove accidenti sono?
"Chi me lo fa fare?", mentre corro come una dannata per i corridoi lunghi e bianchi del metro Passeig de Gracia. I tempi sono stretti. Il mio quartiere preferito della cittá vive sopra alla testa, ma non lo riesco a vedere.
"Chi me lo fa fare?", quando inseguo un atrio a quattro stelle solo per un abbraccio di arrivederci. Lo raggiungo alle nove del mattino. E chi me lo dará sceglie piú saggiamente di dormire.
La risposta, chissá come, arriva sempre. La trovo in quella scintilla. Nei suoi gesti d'affetto. Nel senso di vuoto che mi prende, improvviso, mentre il punto e a capo di quell'ultimo "grazie" mi riproietta nella realtá.
"Come siamo zitte, ora..."
"E' che...é finito", e prima ancora di iniziare.
Poi, la malinconia al reparto libri del Corte Inglés. L'urgenza fisica di comprare un altro biglietto. La sensazione - stavolta ancora piú intensa che a Bilbao- di essere tornata a casa mia. Sapete: c'é un rapper spagnolo, invitato da Dani Martin a cantare "Beatles y Stones" a Barcellona. Rayden, si chiama. Ecco: lui dice che la casa sono le persone. Di quanto abbia ragione mi accorgo in circostanze come quelle del fine settimana trascorso, soppesando amicizie lunghe anni che senza la musica non sarebbero nate mai. Godendomi i sorrisi, i volti famigliari di chi mi conosce e mi saluta. Riempiendo di riflessioni esistenzialiste il fatto che le "nuove leve" dicono di aver presente la mia faccia. O il mio nome, magari. Io ci scherzo: "sono famosa, aiuto". Ma forse il punto é che sto qui da troppi anni per potermene andare.
Forse appartengo a questo. Ci sono condannata. E posso odiare le ragazzine isteriche, ridere del reggiseno nero che piove sul palco della prima delle due date (oddio, da quanti anni non assistevo ad un concerto in cui lanciano reggiseni?!?), nausearmi per le rivalitá tra gruppi e i climi di invidia. Posso, sí, persino desiderare di piú. Perché desiderare di piú fa parte dell'essenza umana; e gli occhi guardano sempre a chi non sei. Eppure, mentre passo il tempo a chiedermi perché non sia ancora tra quelle che vengono invitate nel backstage; mentre mi sento "inferiore" perché non ho suoi commenti alle foto di instagram; qualcuno - dall'esterno- invidia me.
"Hai tutto", mi dicono. Raccontano a mariti ed amici, come fosse qualcosa di strano, che Dani - "ti giuro!"- ogni volta che si avvicina le fa l'occhiolino, la guarda, le sorride.
Si stupiscono del fatto che sia sempre lui a salutarmi e raggiungermi quando lo vedo nelle hall di qualche hotel. "Per i comuni mortali é il contrario", mi fanno presente. E, mentre arrossisco, mi rendo conto d'un tratto di quanto io dia ormai per scontato qualcosa che un tempo mi sembrava irraggiungibile. Ma, anziché gioirne, passo il tempo ad aspettarmi di piú. Come una vera stronza. Una stronzissima ingrata.
Nel 2009, dal palco di Roses, una versione di Dani Martín con l'apparecchio ai denti e senza gel, chiedeva per la prima volta un applauso a "una RAGAZZA che é venuta dall'Italia". Ora, a Valencia, ultima tappa del tour 2013, l'ovazione a cui incita é per una "DONNA" che si chiama Ilaria. Scherzo sulle parole, che a pochi giorni dal mio ventinovesimo compleanno mi cadono in testa come macigni. "La prossima volta dirá SEÑORA, poi ABUELA". Peró, nel profondo, penso che dietro a quei vocaboli ci sia molto di piú. Dani Martín ha ragione, in fondo: io, sotto a quel palco, ci sono cresciuta.
Poi partono gli accordi de La suerte de mi vida. Perché ci sono canzoni che ti imprigionano. Parole che ti segnano per sempre. E il nodo nella gola non si scioglie in pianto per pura divina bontá.
Ecco chi me lo fa fare.
[to be continued]
:-)
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