Sono le nove di sera, ma il cielo non lo sa.
Sulla strada del ritorno dal corso di baile i fiori sugli alberi iniziano a sfiorire un po', preavviso insieme splendido e un po' triste d'estate. La pancia brontola la spesa che non sono riuscita a fare. Metterò insieme una pasta. Ma sì, ho ancora le verdure surgelate.
Sulla strada del ritorno dal corso di baile i fiori sugli alberi iniziano a sfiorire un po', preavviso insieme splendido e un po' triste d'estate. La pancia brontola la spesa che non sono riuscita a fare. Metterò insieme una pasta. Ma sì, ho ancora le verdure surgelate.
Sembra un giorno come gli altri, coi pensieri di sempre e un cane smarrito sul marciapiedi.
Solo che ho un foglio firmato sulla scrivania.
É ufficiale: ho rinnovato il contratto d'affitto.
Il che significa che sono in questa casa da un anno.
Un anno della vecchietta che chiede aiuto per attraversare la strada. Un anno di conversazioni con la fruttivendola. Un anno con la cassiera del Día che ancora non si rassegna al fatto che non abbia la tessera. Un anno della gitana che urla insultando persone immaginarie, e sempre ad ore impossibili. Un anno di fiatone a maledire i Moscatel sulla salita per tornare dal centro. Un anno che voglio scaricarmi Shazam per identificare i brani di flamenquillo che ascolta la gente in auto mentre è ferma al semaforo. Un anno, in effetti, che non ho memoria sul cellulare.
É un anno che so che ora è in base al vociare dei bambini che tornano da scuola. Un anno che mi chiedo cos'accidenti vendano gli anziani che al mattino si piazzano sulla sedia davanti a un edificio con la serranda alzata. E anche perché, a comprare, non ci vada mai nessuno. Un anno che, al mattino, qualcuno saluta una fantomatica "'Ntoniaaaa!". Un anno del signore abbracciato al figlio down. Di quello col marsupio che girava con la sdraio da spiaggia. E chissà dove l'ha persa, poi. Un anno dei cinesi che mi danno sempre il resto in ottocento monetine da 2 cent. Del bicchiere di vino rosso la sera. Del maledetto ragazzino che passa palleggiando il pallone da basket. Tum Tum Tum.
É un anno che stampo cose al tabaccaio, col ragazzo che si complimenta per il mio curriculum e mi augura buon viaggio quando sullo schermo gli appare una carta d'imbarco. Perchè qua i fatti propri non se li fa nessuno, mai. Ma a me (non ditelo a voce alta) in fondo piace così.
Per cui lo so, che divento emotiva in modo esagerato. Sacrifico lo stile per un elenco assurdo di ripetizioni. Solo che ci sono molti più libri sugli scaffali. Molti più biglietti di musei attaccati al pannello di sughero. E, davanti a quello stupido foglio di carta, oggi mi sono resa conto all'improvviso di quanta vita io abbia impregnato queste mura.
Mi è tornata in mente la prima e unica cena fatta qui, quando ancora faceva un caldo assurdo e ci si appiccicava sulle sedie. Laura e Teresa avevano urlato "Ilariaaaa" fuori dall'appartamento sbagliato, e quando avevano suonato il campanello già ridevano come due pazze. Alice e Miguel avevano portato una bottiglia, ed avevamo brindato alzando i bicchieri. "Che sia una casa piena di flamenco!", avevano augurato. E così è stato. L'ho riempita di passione. Di intensità. Di dolore, a volte. Ma comunque di quel genere di emozioni che ti increspano la pelle e ti si imprimono nel cuore. Come il braceo di un silencio, come un zapateado, come la gioia di una bulería.
Ricordo quando sono uscita dalla doccia coi capelli bagnati, e mi s'é palesata una processione sotto casa. O la notte di San Juan, che ho trovato sabbia nei piatti di plastica per almeno due settimane.
Ricordo quella volta che ho fatto una riunione con un cliente importante seduta sulla tazza del water, perchè era l'unico posto in cui il rumore del traffico non interferiva con la ricezione della mia voce su Skype. Quando Victoria mi ha portato i cioccolatini, e mi ha raccontato la sua vita sorseggiando un tea. Quella volta che sono rientrata ubriachissima. Il mattino che ho chiamato la polizia.
Ripenso ai miei outfit per la feria che giravano nella lavatrice. Alle arance che cadevano per terra. A quanto cavolo detestassi le urla fastidiose della bimba dei vicini.
Mi tornano in mente le serate stravaccata sul divano a ingozzarmi di schifezze guardando Breaking Bad. Il periodo in cui cucinavo tutto in forno per il solo gusto di inaugurarlo. L'illuminazione che mi ha spinta a battezzare la mia lampada Frida. Quando, appena trasferita, mi ero messa in testa che volevo segnarmi le frasi clue di tutte le conversazioni che ascoltavo dalla finestra. E forse avrei dovuto farlo sul serio, considerato il mattino in cui un prete raccontava ad un altro altro i tormenti del dover essere celibe ("perchè è normale che le donne le guardi, ed è difficile...sai, io in realtà ho peccato"). E mi sembrava di essere finita in una telenovela di serie b.
É stato in questa casa che ho parlato al telefono con mio nonno per l'ultima volta. É stato qui - di fatto allo stesso tavolo da cui sto scrivendo ora - che mi hanno dato la notizia più brutta che mi potessero dare. Ma é stato sempre qui che sono corsa a perdifiato quel giorno, dopo la parrucchiera. É qui che ho comunicato ai miei che sí, avevo un nuovo lavoro.
E quante volte ho cantato a squarciagola mescolando risotti nella pentola. Quante volte ho pianto pacchetti interi di fazzoletti. Quante volte non riuscivo a stare ferma dalla felicità.
La casa che credevo simile a quella di Monica di Friends ha in realtà la stanza con le pareti dello stesso colore di quella di Robin di How I Met Your Mother. E mi viene da sorridere se penso che quando sono arrivata ero convinta che l'avrei lasciata il prima possibile. Perchè dopo un anno di pareti fucsia scopro che quello che mi avevano detto in quella prima (e unica) cena era dannatamente vero: questa casa, gente, somiglia a me.
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