Sensazione strana, quella della fiducia ripagata.
Ti vien voglia di gridarla ai quattro venti. Condividerla, orgogliosa, negli "avevo ragione".
Che poi tu mica c'entri. Non hai fatto proprio nulla, se non pagare (e dieci euro, mica un capitale!) per un pre-ordine su Amazon. No. La tua sola parte attiva nel progetto, se mai c'è stata, si è limitata all'assillo dei tuoi rassegnati amici, quelli che ancora si chiedono - poracci! - quand'è che smetterai di vivere laddove un palco muore.
Eppure eccoti qui, esaltata come le due quindicenni che ami affermare ti compongano i trent'anni. Ridicola, probabilmente. Ma, fuori da ogni dubbio, sollevata.
Dovevo parlarne, perciò, del nuovo album de Il Cile. Ci ho riservato un primo ascolto febbrile, costruito di attese protratte e curiosità nutrita di commenti positivi. I mezzi erano quelli che erano. Un paio di cuffie intorcigliate. Un vecchio computer ormai talmente scassato da impedirmi di fissare altro che non fosse la schermata di Spotify (alla lunga, interessante quanto la vernice che si asciuga). Si impallava, ad aprire altre finestre. Evitava, da solo, qualsivoglia distrazione. E allora ci ho chiuso gli occhi, su tutto quel nero. 37 minuti di pausa dal mondo. Un incresparsi di brividi che è iniziato ad accentuarsi già al crescendo musicale di ascoltando i tuoi passi.
Dietro a In Cile Veritas c'è, nel complesso, un cantautore più positivo e leggermente meno criptico di quello conosciuto con Siamo Morti a Vent'anni. Di quel disco però conserva e ulteriormente affina le caratteristiche essenziali, in una tensione al miglioramento che - come ho scritto più volte - è in ogni campo artistico la sola cosa in grado di garantirti un futuro. Il timbro vocale, per esempio, resta inconfondibile nel suo spezzarsi arrugginito e roco. Si fa, però, più rotondo e pieno, più sicuro di sé, capace di virtuosismi assenti nell'opera prima. I testi stessi, per quanto sembrasse difficile, eguagliano - se non addirittura superano- in profondità quelli a cui ci aveva abituati dal 2012 di Cemento Armato. Versi da pelle d'oca sono disseminati qua e là a densità talmente elevata da rendere difficile la scelta ogni volta che vorresti citarne qualcuno. Malinconia, tenerezza ed ironia ci si alternano dentro a comporre un quadro che, come solo Il Cile riesce a fare, racconta una generazione intera semplicemente parlando di sé. Ascoltate Liberi di Vivere e capirete cosa voglio dire.
A livello tematico, l'alcol è il filo conduttore che lega sottilmente le 10 tracce, giustificando il titolo dell'opera e la scelta (discussa e forse discutibile) del primo singolo estratto. Bicchieri consolatori di Jack Daniel's, tequila, bottiglie vuote ed anime ad alta gradazione sono, a ben vedere, il fondale di un'unica storia che si snocciola poetica e viscerale in collane di parole da perdercisi dentro. Una volta mi ha detto, Lorenzo Cilembrini, che quando scrive abbonda in "labor limae". Beh, secondo me in questo disco si nota e gli è riuscito più che mai.
I brani migliori? Personalmente direi "Parlano di te", il momento più alto di tutto l'album. Crepuscolare nei suoi piatti da lavare; visivo nel suo descrivere di oggetti e situazioni comuni la fine di un amore; semplicemente lirico già dalla prima strofa, che anche slegata dalla melodia è un dipinto prezioso a pennellate di parole.
"Luglio coi suoi passi felpati sulla terra secca e l'asfalto con le rughe, mi prende ogni volta alle spalle come i brividi delle mie paure".
Per non citare "Parlano di te queste stelle ormeggiate in un mare al contrario di una notte d'estate", una delle mie frasi preferite in assoluto assieme a "Ogni volta che ti osservo nel mio sangue si scioglie la Luna" di Vorrei Chiederti (ribadisco: sono una romantica, che ci volete fare?)
Poi "L'Amore è un suicidio": la botta di vita del disco, la sferzata di energia rock, l'irrinunciabile parentesi ironica in cui riversare fiato e polmoni.
Un'Altra Aurora (PS: correggete il booklet, c'è un refuso!) sorprende nel suo rivelare un Cile tutto sommato finalmente sereno. Perché la cerca così tanto che "si ammazzerebbe", sì. Raccoglie i suoi rottami, e lascia le unghie sulla parete. Ma poi ringrazia la sua vita e si perde nell'immenso di ogni suo sorriso. Orecchiabile e destinata ad incollartisi dentro, con quel suo nananananananana che ti condannerà a canticchiarla fino alla perdizione.
E ancora "Sapevi di Me", il singolo attualmente in rotazione. Quello che mi ha sciolta, conquistata e catturata fino a diventare il mio mantra personale. Il biglietto da visita vero che apre In Cile Veritas con quella che è a conti fatti una sorta di seconda parte del brano, omonimo, che dava il via a "Siamo Morti a Vent'anni".
A convincermi un po' meno è invece Maryjane. Leggermente modificata in alcune parti del testo rispetto alla versione che ci aveva regalato Il Cile in un video su Facebook. Carina, senza dubbio. Ma, forse anche perché priva del fascino della scoperta, di livello lievemente inferiore alle altre.
Baron Samedi perde un po' la carica esplosiva che ha nella versione live, la dirompenza di quel video consumato di play. Ma è comunque bello avere finalmente incisa la frase in cui , sin dalla primissimo ascolto, mi sono ritrovata più che in qualunque altra. Perché anche "Il mio cervello è una centrale nucleare con le scorie da smaltire" e ogni volta che l'ascolto mi sento un po' meno sola.
"Sole, Cuore, Alta Gradazione", infine. Quel singolo che, col senno di poi, forse non era il più adatto ad introdurre l'album. Non per il brano in sé (che a me è piaciuto subito, e continua a piacere) quanto per le reazioni avute. Chè sono stati in molti a non averlo capito. Si sono soffermati all'involucro di sonorità radiofonicamente accattivanti per non arrivare a cogliere la derisione intrinseca, parodica e satirica, del testo. Chi si aspettava il ritorno del tizio di Cemento Armato ne è rimasto a volte un po' deluso, ed è un peccato perché quel tizio, invece, ne "In Cile Veritas" c'è tutto, dal primo all'ultimo di quei trentasette minuti. Ed io, ascoltandolo, riscopro nei suoi confronti quella stessa ammirazione assoluta e intimidita che provai quando, in auto verso Gorizia, inserii per la prima volta "Siamo Morti a Vent'anni" nello stereo.
Chè certe parole, non si sa come, ti specchiano. Cambiano. Toccano dentro. E Il Cile, con me, è riuscito a farlo di nuovo. Ha dichiarato, a La Stampa, che scrivere "è quello che so fare, non so fare altro". Posso solo augurargli di non smettere mai.
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