É tornato il periodo piú
confuso dell'anno. Quello che ti sfugge tra le dita.
I ragazzi bivaccano in piccoli gruppi, i piedi sospesi nel vuoto, seduti ai bordi del molo audace. Cacofonia di stereo accesi, bottiglie di birra mezze vuote, gli sguardi spensierati verso il cielo. Mi rivedo in loro, avida come sono di questo primo sole. Dei pomeriggi all'aria aperta. Della vita che, di nuovo, sembra sgorgare dopo l'inverno da una fonte troppo a lungo ostruita. C'è un tizio elegante, in Piazza Unità. Riarrangia Viva la Vida dei Coldplay con il solo ausilio di un violino. E, senza alcuna ragione apparente, io mi sento davvero felice.
Aprile se lo perdono
tutti, da Sabina in poi. Lo ricordo ogni anno, perchè ogni anno è
più vero. Si accumulano i bip sul cellulare, raddoppiano i treni da
prendere verso orizzonti comunque rinnovati. Dormi poco, o se non
altro meno del dovuto, la testa troppo piena di progetti per far
posto a un calendario da gestire. Benvenuta Primavera. Benvenuta alla
Speranza che si fa stagione.
Negli ultimi quindici
giorni, se mai ve lo steste chiedendo (e capisco che sia
interessantissimo), sono successe un bel po' di cose.
Ad esempio, ho dato sfoggio del mio ormai ineluttabile spanglish intercalando con “bueno”, “entonces” e “también” ogni singola frase pronunciata in inglese. Ho litigato con le palpebre cercando di evitarlo in macchina. Convenuto, una volta per tutte, sul fatto che restare sveglia su di un mezzo di trasporto in movimento, se fuori è buio, va contro natura. Ancora, ho dimenticato di spegnere il termosifone prima di dormirci accanto, quando fuori imperava una ventina di gradi. Ho sperimentato con (spero) molto anticipo le vampate della menopausa. Rievocato il Terral nel luglio di Málaga. Brevettato il Maxi-Phon definitivo. Fatto un giro all'inferno per decidere di comportarmi bene. Ma tanto poi aprivi la finestra, e c'erano quei tetti. Con tutti quei camini. Con tutto quel sapore di favola e bon ton. C'erano le montagne, a far loro da cornice. E allora tutto poteva anche andarmi bene.
Ho scoperto, negli ultimi
quindici giorni, che Grenoble è una piccola Parigi incastonata tra
le Alpi. Che qualsiasi indicazione, lì, può essere riassunta nel
“seguire i binari del tram”. Che non importa in quale Paese tu
sia cresciuta: se sei nata negli anni '80, sotto al coperchio di un
piatto raffinato, ti aspetterai sempre e comunque di trovarci il
granchio della Sirenetta.
E poi ho preso un treno.
Ho varcato il confine. Guardato il verde farsi sempre più intenso
appena superata Bardonecchia. Ho assaporato un gusto d'altri tempi in
una vecchia cabina telefonica dismessa ma tenuta bene. Ho visto il
Monte Bianco. Ho visto ponti a metà tra i cantieri infiniti
dell'Expo. Ho comprato la cena in una sottospecie di take away bio,
pensando che un posto così potrebbe esistere soltanto a Milano.
E
allora ho fotografato il Duomo, sotto un cielo che non credevo
potesse essere così azzurro. Mi sono vergognata della frangia
spettinata in una città sempre troppo perfetta e frenetica. Chè i
passanti muovono l'aria, nel loro correre tra i corridoi della metro.
Anche di Domenica. E, nonostante tutto, trovano comunque il tempo di
badare a te. Dove per “badare” intendo scansionarti con occhio
critico, col probabile fine di individuare le tracce di ghiaia
depositate sull'orlo del pantalone nero. Una città da ansia da
prestazione. Da insicurezza cronica. Assurda nei suoi pseudo “caffè
letterari” in cui un antipasto può costarti 40 euro. E tu ti
chiedi se lo sanno, che i veri letterati è già tanto se hanno i
soldi per arrivare a fine mese. Poi sono tornata a casa. Ho ribadito
che comunque può essere bella, a modo suo, persino lei. Che può
esserlo l'Italia, che lo è il mondo intero. Ho sognato
teletrasporti. Come il peggiore dei drogati, ho già avuto di nuovo
voglia di partire.
Ed ho ospitato, invece.
Condiviso chiacchiere e risate con un'altra viaggiatrice. Ho visto
furgoni in panne e gelate improvvise cercare di mandare a monte – e
non riuscirci – un progetto covato da mesi. Ho mangiato dolcetti
siciliani. Mi sono rallegrata per un evento riuscito. Mi sono
innamorata di una vecchia macchina da scrivere Underwood. Sentito la
gente passarci davanti e dire “Frank”.
Mi sono arrampicata,
infine, sulla salita impervia per San Giusto, scovandoci dettagli di
street art . E, sapete che c'è? Ho saputo meravigliarmene. Ho saputo
apprezzare la bellezza di un tramonto da cartolina, di quelli con il
sole fatto a palla, appoggiata sulla spalla di James Joyce.
E' stato il giorno di
quei ragazzi sul Molo Audace. Il giorno in cui ho capito che Aprile me
lo perdo perchè mi distraggo a forza di essere felice.
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