mercoledì 6 maggio 2020

La borsetta della Nuova Normalità





Le borsette, prima, erano la mia ancora sul mondo.

Le sceglievo sempre grandi, per riempirle fino all’orlo di casomai. Il rimmel che giá sapevo che non avrei rimesso nel gabinetto del pub, l’ombrello con 40 gradi in Andalusia, la tessera della Fnac anche se uscivo a bere una birra dopo le dieci.

Preparata a tutto, pronta a nulla. 

Quelle borse erano cosí inutilmente pesanti che era un miracolo se la cerniera mi durava un mese. 

Forse è per questo che mi é scappato da ridere, Sabato scorso. 
Mi sono guardata allo specchio e ho pensato “guarda te”. 


Per la prima passeggiata ne ho scelta una minuscola.

Dentro non ho avuto bisogno di metterci altro che non fossero le chiavi di casa, il cellulare, la carta di credito, il documento di identità e il disinfettante per le mani. Il nuovo essenziale. Ho mosso i primi passi lentamente, godendomi la luce decisa del pre-tramonto. 

Non era solo la borsa ad essere leggera. 



Alla prima uscita mi sono sentita diversa, come se mi avessero svuotata di qualcosa.
E forse non è necessariamente un male. 

Durante questa quarantena ho scoperto che ho bisogno della natura molto più di concerti e bar. Io, che ho sempre preferito 30 metri di asfalto a una villa distante dallo scintillio del centro, ora darei un rene per poter aprire la finestra sul mare. Ho scoperto (ed era anche ora) che la consultazione frenetica dei social network mi fa solo stare male. Che mi serve una persona accanto per andare a letto presto, staccare dopo lavoro e prendermi davvero cura di me. 

Oggi tutti parlano di fasi, e anch’io ho avuto le mie. 

FASE 1: CREARE


Quando ci hanno rinchiusi in casa ho ricominciato a scrivere poesie. Credevo di aver smesso da adolescente ma poi, da un giorno all’altro, i versi hanno ricominciato a disturbarmi il sonno. Senza voler essere Freud, immagino c’entrasse qualcosa con la routine di piantini isterici che avevo fatto precedere al lockdown

Comunque sia, la prima cosa che facevo alla mattina era sputare i versi su un documento Word, senza stare troppo a pensare allo stile. Parlavano di Málaga. Di mio nonno la volta che ho pianto guardando una barca a vela. Del disordine per casa. Di quella pozzanghera chiamata Mediterraneo che connette le mie due vite. Di mattoncini dei lego come costruzione improvvisata di futuro. Di punti interrogativi alla rovescia. Di Ángel che mi salva cantando gli Estopa prima di dormire.


Ah! E di Charles Baudelaire. 
Se scrivo poesie, c’entra quasi sempre Charles Baudelaire.

Un lettore estraneo non troverebbe niente di troppo strano, nei miei componimenti. Eppure io so di essere nuda. 

Anche se dubito che li farò mai leggere a qualcuno, scriverli è stato terapeutico. L’ora d’aria quando ancora non l’avevo. Poi ho guardato di nuovo davanti a me e ho ricominciato a vedere alberi fioriti dentro a una cornice geometrica dove prima c’era una primavera rettangolare. 

Ho sorriso senza troppi rimorsi. 

La poesia mi aveva abbandonata perché avevo assorbito il colpo.
Non mi serviva più.
Era arrivata l’accettazione. 

FASE 2: MUOVERSI 


Come nei migliori corsi di auto-aiuto, ho deciso che - se proprio dovevo stare chiusa a casa - un po’ di attività fisica mi avrebbe fatto bene.

Sí, continuavo a fare lezione di flamenco in due volte a settimana (con la differenza che ora la facevo in streaming e rigavo il pavimento che era una meraviglia); ma fondamentalmente avevo smesso di fare quei 20 km a piedi vagando senza meta per Málaga ogni fine settimana. 

Si aggiunga che mangiavo come un bue, e… zacchete. Di colpo mi si stavano pericolosamente ingrossando le tette. Ogni volta che mi rendo conto che quando ingrasso metto i kili di troppo sul sedere e sulle tette mi viene in mente Lily che si incazza con Robin in How I Met Your Mother. Però è così, accidenti. É il mio segnale d’allarme supremo. 

Quindi, niente. Dovevo muovermi. Ed é cosí che, cerca che ti ricerca, ho scoperto la zumba. Rivelazione del secolo. Ogni Domenica mi sparavo un video diverso su Youtube e mi mettevo a saltellare per casa come una sciura in trip da acquagym al villaggio vacanze. Una volta mi sono dimenticata che avevo appena passato il mocio e sono finita a gambe all’aria sul pavimento della sala, ma c’é da dire che mi sono rialzata con una certa classe. 

In questa fase ho imparato a conoscere e classificare i vari istruttori di zumba e cardiofitness del web. Per esempio, ci sono le tizie super professional che sorridono felici e coi capelli perfettamente in ordine mentre tu sei già in un bagno di sudore con la lingua penzolante e la chioma pseudo-afro, che metti in pausa per andare a scolarti l’intero Guadalquivir previamente filtrato (il Guadalmedina sarebbe più malagueño, è vero, ma ti disseteresti poco.  E poi ci sono i boni, quasi certamente gay, che ti ammiccano nel bel mezzo degli esercizi riuscendo al massimo nell’aspetto motivazionale. 

Dopo una serie di severissime audizioni di fronte ad una giuria composta da me e da me medesima (note esperte del settore) ho deciso che i miei preferiti sono loro: 

A) Clase completa de Zumba- DeportesUncomo (per la categoria tizie professional, accompagnate da uno stuolo di ancelle con top molto cool) 



B) Cardio Dance Flamenco - Siéntete Jóven (per la categoria tizie professional, ma senza ancelle. Questo allenamento è bellissimo perché mixa - come avrete capito - il cardio fitness con il flamenco) 


C) Dance Workout - Fitsseveneleven (per la categoria boni) 




FASE 3: PERDERE IL TEMPO 


Infine (probabilmente stremata sul divano tipo il gatto qui sopra) mi sono resa conto che potevo anche perdere il tempo. Che è importante pure quello. Che magari, non so, mi fa addirittura bene.

C'è stato un momento, nella mia vita adulta, in cui - chissà perchè - ho smesso di giocare. Certo, quando è uscito Facebook avevo provato (come tutti) a dare una possibilità al magico mondo dei gattini con sembianze umane, al Pacman versione 2.0 e all’immancabile Candy Crush. Mi sono stufata subito perché: 

1. Quando ho potuto mettere la bandiera spagnola e scrivere "EL CANTO DEL LOCO" nella cameretta della mia gattina col fiore in testa, francamente non mi restava altro a cui aspirare. 
2. Mio papà mi batteva sempre al Pacman e la cosa mi faceva incazzare un sacco. 
3. Per andare avanti con Candy Crush dovevi chiedere un sacco di aiuti agli amici e non mi andava di rompere le palle al prossimo.  

Quindi, niente. Capitolo chiuso. Avevo ufficialmente deciso che i videogiochi erano un’alienazione. Il Grande Nemico che ti distoglieva da compiti importantissimi come  fare il bucato, pulire casa, scrivere un articolo, scrivere un post, scrivere un altro post, scrivere un terzo post, scrivere un articolo, scrivere un… Dio, c'è sempre cosí tanto da fare! 

Finché un giorno, in quarantena, mi stavo rodendo il fegato a leggere commenti acidi su Twitter. Ho alzato lo sguardo dallo schermo, furibonda, e ho visto il mio ragazzo che sorrideva beato davanti al computer, perso in una dimensione tutta sua. 

Mi sono avvicinata (un po' guardinga) e stava fissando un guerriero tanto carino che correva su un molo di pietra verso un aggeggio per il teletrasporto. Bel posto, sembrava il Muelle Uno. Ho iniziato, lo confesso, a seguire con certa invidia le avventure di quel guerriero. Più che altro era per gli scenari: rivedevo Málaga ovunque. La fortezza medievale, nella mia mente bacata, diventava il Gibralfaro. La chiesa deserta era la mia Manquita. Se c’erano palme, Paseo del Parque senza dubbio alcuno.

Naturalmente, i mostri che uccideva per me erano gli scarafaggi.
MORTE AGLI SCARAFAGGI SEMPRE. 

Di colpo, mi sono accorta che perdersi in una dimensione virtuale era decisamente piú rilassante che leggere la gente che si lamenta di altra gente che si incazza con altra gente su un social network creato dalla gente. Quindi mi sono messa a navigare un po’ sull’Apple Store. Ho trovato un giochino carino, tipo Sim City. Nella mia era pre-adulta, quando ancora non avevo messo al bando i videogiochi, amavo molto Sim City. 

Ad oggi sono sindaco di una bella cittadina piena di alberi viola su di un'isoletta assolata. Ogni tanto, dopo lavoro, invece di preoccuparmi di quello che devo scrivere, cucinare, devo mettere a posto, scriverescriverescriverescrivere penso che potrei espandere la spiaggia o costruire un dipartimento di ingegneria industriale. E vi assicuro che é come fare reset in testa. 

Dopo tanto, ho sentito il mio cervello respirare, come le città deserte in cui riaffiora la natura. 







E forse è proprio lì che ho alleggerito la borsetta. 
Forse è lì che mi sono svuotata.