mercoledì 30 dicembre 2020

Cose belle del 2020 (sì, ci sono state)

Foto: Pexels



Prima di lui vidi la valigia.

Un trolley bordeaux riempito di pochi abiti stropicciati presi a caso dall’armadio.
Lo fece rotolare fino al centro della stanza, il respiro affannato di chi ha accelerato il passo per non varcare i confini dell’illegalità. 

Poi mi strinse forte.
Era la sera del nostro primo anniversario. La stanza profumava di lasagna. E in quel preciso istante capii, per la prima volta, il significato della parola “gratitudine”.

Mancava ormai poco a mezzanotte, l’ora in cui sarebbe entrato in vigore il lockdown. 


Per lui non si trattava di arrivare tardi ad una cena. Si trattava di scegliere dove e con chi passare i prossimi tre mesi.

In un appartamento spazioso a pochi metri dal mare o in un buco di 30 metri quadrati con vista sul bidone della spazzatura. Con la famiglia o con una tizia isterica che da giorni non faceva altro che piangere leggendo le notizie sui social. 


“Dato che il posto è piccolo potremmo cambiare di tanto in tanto la disposizione dei mobili” - mi disse - “Fare i turni per la spesa così prendiamo aria. Fare esercizio con i video di youtube”. E il sottotesto era che (povero pazzo!) aveva davvero scelto me. 

Seguì una quarantena di ferias improvvisate, performance sonore coi bicchieri di vetro, canzoni giapponesi, cibo a domicilio, zumba, netflix e risate. Tante. Io ho imparato ad accettare il suo disordine, lui s’è rassegnato al mio essere scontrosa quando scrivo.  Ci sono cresciuti i capelli e - nel mio caso - il diametro del sedere. E mentre il mondo, fuori, impazziva, siamo riusciti addirittura ad essere felici.

I tre mesi sono diventati sei. Poi nove. Poi la ricerca di una casa più grande mentre un gatto randagio ci si struscia sulle gambe dandoci il benvenuto nel quartiere.

Il 2020 è stato orribile, non mentiamoci.
Ma è stato anche l’anno in cui ho iniziato a convivere.

E convivere, in qualche strano modo, mi ha aiutata a trovare l’equilibrio. A riprendere a leggere. A chiudere il computer dopo 8 ore di lavoro. A smettere di andare a letto alle 2 del mattino.

Ho affrontato tante cose da sola.
Da sola mi sono trasferita in un Paese straniero.
Da sola mi sono trovata un posto in cui vivere, un lavoro, degli amici. Da sola ho sopportato influenze, mal di stomaco, lutti, addii, inganni e delusioni.

Ma una pandemia, no, quella sarebbe stata troppo. 


Sarei impazzita. Ne sono sicura. 


Me ne rendo conto ogni volta in cui mi stresso per una sciocchezza e lui con un’uscita improbabile mi calma meglio e più in fretta di un sedativo.

Per questo dico che non tutto è da buttare.

Di fatto, di quest’anno ignobile, ho un altro buon pugno di momenti da salvare.

Per esempio, la cena al buio nel ristorante gestito da non vedenti a Barcellona. Indovinare il colore del vino che mi stavano servendo, non capire chi avessi accanto, soffermarsi sui sapori di pietanze da mangiare con le mani.

Il Red Carpet dei Goya. Il mio primo evento di moda flamenca con l’accredito di rivista specializzata nel settore. L’orgoglio del cartellino con sú scritto prensa e un hotel a cinque stelle in cui sognare di volant.



L’escursione con gli amici a Nerja e Frigiliana. La mia prima (e unica) serata di poesia dal vivo. La banda che suona la musica di Chorus Line in plaza de la Constitución mentre esterno il mio entusiasmo in un vocale. Salire sul tetto della Cattedrale e silenziare le notifiche per fingere che il virus non sia già attorno a noi.


E ancora, il primo giorno in cui siamo potuti uscire e il Parco di San Miguel ci sembrava il Paradiso. La piscina della casa rurale di Frigiliana nel giorno più caldo dell’estate. Ricongiungermi coi miei a Venezia in una giornata che così limpida sarebbe stata difficile anche solo da immaginare.







Poi le ventiquattro ore da vip per Esperienza Spagna. Il relax ai Bagni Arabi. Le tante escursioni in catamarano al tramonto - compresa quella in cui ho perso una scarpa pur di riuscirmi a imbarcare.


Per non parlare del weekend romantico a Tarifa. Truccarsi di tutto punto per passare Hallowen seduta sul divano. Le fughe nella natura e il pranzo al sacco sul Gibralfaro ( "Stiamo creando le nostre proprie tradizioni!"). La vigilia alla spagnola.

Il primo gennaio del 2020, ubriaca sul divano, dichiaravo che quest’anno mi faceva paura. Che mi trasmetteva brutte sensazioni. Che per una mia legge personale che ho sempre visto rispettarsi, a un’annata buona ne segue inevitabilmente una cattiva. Il 2019 era stato troppo troppo perfetto per non far presagire il peggio. Sentivo che il pungiglione liquido di una lacrima iniziava a perforarmi l’iride. Esagerata, dicevo a me stessa. E davo la colpa al vino.

Oggi penso al 2021 con un senso di tranquillità. Perchè a quella legge, adesso, voglio credere più che mai. Ho bisogno di farlo. Ho bisogno di convincermi, come convinta ero delle premonizioni fatte su quel divano, che piano piano, a fatica, questa volta andrà davvero “tutto bene”. 





P.S: Subito dopo aver scritto questo post ho avuto un incidente da idiota con il minipimer, ho passato la serata in pronto soccorso e ne sono uscita con 3 punti su un dito. COSA ACCIDENTI STATE CERCANDO DI DIRMI?

mercoledì 2 dicembre 2020

Lezioni di scrittura da Stephen King

Il bello di avere un blog personale é che ogni tanto ti puoi permettere anche di andare fuori tema. Perciò vi chiedo scusa, se siete approdati da queste parti cercando qualcosa che riguardi la Spagna.
Navigate pure tra i post precedenti e sentitevi autorizzati a saltare questo a piè pari.

Qui mi rivolgo soprattutto a chi scrive, non importa se per mestiere o meno.
Magari un pochino anche a chi vuole farsi i fatti miei, sia pure solo per sapere che volumi sto accumulando sul comodino.

Il punto è che ci sono libri che ti aprono la mente.

A volte ti fanno riflettere su qualcosa a cui non ti eri mai degnato di prestare attenzione. Altre risvegliano interessi che non sapevi di avere. Alcuni (i migliori) ti aiutano persino a migliorare in ciò che fai. In genere sono loro a trovarti e, se ti capita la botta di culo, lo fanno proprio quando iniziavi ad adagiarti in una (s)comoda routine.

On Writing di Stephen King, per me, rientra nell’ultima categoria. A metà tra l’autobiografia e la saggistica, è il primo e fino ad ora unico manuale di scrittura che mi abbia catturata sin dalla primissima pagina.

Non che ogni parola mi sia esplosa in testa come una rivelazione.  Anzi. Alcuni dei consigli dell’autore mi sono sembrati addirittura “scontati”: probabilmente perchè si rivolgono a chi sta iniziando a scrivere, ed io (bene o male) non faccio altro da quasi trent’anni.

E poi King parla di narrativa.

Io mi sono formata come giornalista, faccio la copywriter e proprio al massimo aggiorno un blog: nel 90% dei casi, i miei obiettivi sono molto diversi dai suoi.

Anche così, ho estratto da quel libro alcune perle (sei, per l’esattezza) che mi hanno spinta a soffermarmi su diversi aspetti della mia prosa.

É per questo che le voglio condividere qui. 

Per non dimenticarle. Per lanciarle al mondo nella speranza che siano d’aiuto.

Da quando ho finito On Writing, è come se una vocina insistente me le sussurrasse nelle orecchie ogni volta che butto giù un copione, un’email, un articolo o addirittura il testo di una pubblicità per Facebook (nella lista della spesa non si é ancora intromessa).

Sono consigli semplici, certo. Eppure sono convinta che possano migliorare lo stile di chiunque scriva; non importa se lo fa per vendere, per intrattenere o per informare.

Perchè vedete: il problema, quando ti occupi di una cosa da tanto, è che a volte finisci per dimenticarti come si cominciava. Ripassare le basi è, invece, tanto raro quanto obiettivamente vitale.

Suonerà strano, ma mi auguro sentiate le voci 
anche voi.


























LEZIONE #1 - METTETE LA SCRIVANIA IN UN ANGOLINO




Vi servirà a ricordare in un colpo d’occhio il ruolo che dovrebbe avere la scrittura per voi: Sempre e comunque marginale.

Secondo King la vita non dev’essere di supporto alla creatività, ma viceversa. In effetti, questo è anche uno dei motivi per cui condanna la classica americanata dei camping immersivi di scrittura. Non puoi produrre niente di buono - dice - se ogni giorno la tua principale e unica missione è scrivere.

Lo so, può sembrare contraddittorio.
Potreste anche obiettare che è un po’ difficile non mettere la scrittura al centro quando ci devi pagare le bollette. Ricordate, però, che è un lavoro anche per Stephen King.

Certo, lui guadagna di più con un solo libro di quanto noi comuni mortali incasseremo in tutta la nostra vita. Ed è vero: se di punto in bianco esaurisse l’ispirazione, potrebbe campare di rendita da qui al resto dei suoi giorni. Però non è stato sempre così. La gavetta l’ha fatta anche lui. Le incertezze le ha avute anche lui. Di fatto, ‘sta cosa della scrivania l’ha capita dopo essere caduto nelle droghe. Non si voleva disintossicare perchè temeva che le idee gli venissero dalle sostanze che prendeva (visto quello che scrive, avrei pensato lo stesso) e che nel momento in cui l’avesse fatto si sarebbe giocato la carriera.

Ecco cosa significa mettere la scrittura al centro: sacrificare in suo nome salute, famiglia e relazioni personali. Ne vale la pena? Io direi di no.

A conti fatti, è tutta questione di mentalità.
Si tratta di non darle tanta importanza. Di ridurre lo stress, se preferite. 


C’è stato un periodo in cui credevo che il mio impiego come copywriter fosse temporaneo. Accarezzavo segretamente l’idea di aprire un negozio di souvenir d’arte in centro a Málaga, e non mi preoccupava più di tanto l’eventualità che mi licenziassero. Avevo un piano B.

Un’altra volta ho aperto LinkedIn e ho trovato 3 offerte di lavoro diverse nei messaggi privati. Tutte nel mio settore. Tutte apparentemente valide. Tutte che mi chiedevano la disponibilità per un colloquio. Mi sono tranquillizzata, pensando fosse una chiara dimostrazione del fatto che, se anche avessi perso il mio posto, ne avrei trovato un altro in fretta.

Saranno state coincidenze, ma nel primo caso ho ottenuto una promozione e nel secondo un aumento di stipendio.

Poi ho deciso di cambiare casa, e mi sono resa conto che per il tipo di appartamento che volevo mi serviva assolutamente il salario che prendevo. Non potevo scendere da quella cifra. Mi sono anche accorta che il mio lavoro mi piace un sacco, e che vado d’accordo con i colleghi. Insomma: ho iniziato a preoccuparmi seriamente per l’eventualità di esserne privata. Non volevo rinunciare ad una casa più grande e ad una situazione obiettivamente privilegiata.

Allora ho iniziato a sfacchinare come non mai. A fare straordinari. A finire un’email la domenica alle 22 per “portarmi avanti” sul lavoro del Lunedì. A metterci tre ore per scrivere un copy che normalmente non mi avrebbe portato via più di mezzora, solo perché ci tenevo che fosse perfetto. Ci ho rimesso un sacco di capelli per lo stress, e non ho avuto né aumenti né applausi. Di fatto, i testi che ho scritto in quel periodo non sono neanche lontanamente al livello di quelli scritti quando non me ne fregava un granché.

Insomma, la chiave sta nel ricordarsi che in ogni caso mettere in fila parole è solo una professione. Solo una delle tante cose che fai nella tua quotidianità e senza la quale la gente vivrebbe e procreerebbe comunque.

Si dice che ciò di cui più si pentono le persone in punto di morte è di aver lavorato troppo e di non aver passato più tempo con i loro cari. Quindi ricordiamocelo: per quanto possa essere importante arrivare a tempo ad una consegna, non sarà mai importante come passare la serata guardando un film col tuo partner, giocando con tuo figlio o uscendo con i tuoi amici. MAI. Quello è la sala, la stanza. Una stanza enorme e ben illuminata.

La scrivania su cui scrivi è solo un mobile nell’angolino.







LEZIONE #2 - MORTE AI VERBI PASSIVI!




I verbi passivi, secondo King, bisognerebbe impararli a scuola e poi dimenticarli per sempre.

Quando l’ho letto, per poco non mi è sfuggito un urlo di approvazione. Finalmente qualcuno che lo dice! La forma al passivo, in generale, è IL MALE SUPREMO. 


Che senso ha dire “il cadavere è stato trascinato” quando puoi dire “qualcuno ha trascinato il cadavere”? Perchè complicarsi la vita? ‘Sto tizio è pure morto: secondo quale logica dovrebbe essere il soggetto della frase?

Ovviamente esistono le eccezioni. Per esempio, se un poliziotto sta indagando sull’omicidio e non sa ancora chi sia il colpevole, ci sta che, analizzando la scena del crimine, dica: “il cadavere è stato trascinato”.

Nella maggior parte dei casi, però, quando trovate un verbo al passivo in qualcosa che avete scritto, dovreste cercare di trovare un modo per volgerlo all’attivo. Non solo renderà di più, ma ci guadagnerete in specificità: regola aurea del copywriting e della scrittura in genere.

Pensate, per esempio, alla frase: “l’idea è considerata buona”. Magari potete migliorarla un po’ con il “si” passivante (L’idea si considera buona) ma il problema di fondo resta: CHI la considera buona? Se fate l’esercizio di mettere la frase all’attivo, dovrete per forza dire che qualcuno la considera una buona idea, e di conseguenza concentrarvi su chi è quel qualcuno.

Potrete scrivere che “La popolazione la considera una buona idea”, “La società occidentale la considera una buona idea” o che “mia madre la considera una buona idea”. In ogni caso, starete contestualizzando e specificando. Oltre al fatto non trascurabile che la frase suonerà mille volte meglio. 







LEZIONE #3 - RIDUCETE GLI AVVERBI




Nel mondo del copywriting ti insegnano a enfatizzare i concetti con aggettivi e avverbi piazzati in modo strategico: un “esclusivo”, un “nuovo” e un “eccezionalmente” non si negano a nessuno.

Il problema è che questo finisce col portarti ad “imbellettare” anche il linguaggio che utilizzi in altri ambiti; E il rischio diventa quello di esagerare.

Se hai impiegato 10 cartelle per descrivere il comportamento abituale di un personaggio, quando all’improvviso quel personaggio fa qualcosa di diverso, magari non sarà necessario aggiungere che lo fa “eccezionalmente”.

Se scegli bene le parole dei tuoi dialoghi, non ti servirà specificare che Paolo sostiene “gentilmente” o che Maria afferma “sdegnosamente”. Il tono si capisce. E, se non si capisce, hai sbagliato qualcosa.








LEZIONE #4 - SCRIVETE PER IL VOSTRO LETTORE IDEALE




Qui torniamo all’importanza di sentire le voci.
Tutti scriviamo per qualcuno. E, se non lo facciamo, dovremmo iniziare subito.

In genere viene spontaneo. Che tu lo voglia o meno, quando trasformi i tuoi pensieri in parole, inevitabilmente pensi alle sensazioni della prima persona a cui le farai leggere. Quella persona è il tuo Lettore Ideale, e secondo King riveste un ruolo fondamentale nel processo creativo. Nella nostra testa è il nostro primo giudice, ancora prima di diventarlo davvero.

Che sia nostro padre, il nostro partner la vicina del secondo piano, il Lettore Ideale è quasi sempre qualcuno che conosciamo molto bene. Conoscendolo, intuiamo come reagirà alle nostre parole nel momento stesso in cui le scriviamo. Sappiamo cosa lo farà sorridere. Cosa detesterà. Cosa riterrà superfluo. Nella maggior parte dei casi, questo ci porta ad aggiustare in corsa paragrafi cruciali. Pensare “uff, questo sicuramente il Lettore Ideale non lo capirà” ti porta a spiegarlo - il che lo renderà più comprensibile non solo a lui, ma al 90% della popolazione.


Se nella narrativa il Lettore Ideale può essere chiunque, sul lavoro, secondo me, dovrebbe essere il nostro responsabile diretto.

Prendetevi un po’ di tempo per leggere tutto quello che scrive. Cercate di individuare le formule e le strutture linguistiche che usa più spesso (tutti abbiamo degli amori sintattici, e in genere basta una lettura un po’ più attenta per capire quali sono). Alle riunioni, cercate di prestare attenzione al modo in cui parla. Invece di incazzarvi perché vi fa un appunto su un testo un po’ debole, ricordatevi quello che dice. Fate vostro il suo stile. Calatevi nei suoi panni. Se davvero amate scrivere, non dovrebbe risultarvi poi così difficile. 

Quando riuscirete a conoscere il vostro capo abbastanza da sentire la sua voce nella testa ogni volta che vi mettete al lavoro, probabilmente migliorerete la vostra scrittura. O, per lo meno, la migliorerete ai suoi occhi: il che, alla resa dei conti, è ciò che vi assicura uno stipendio. 








LEZIONE #5 - ABOLITE IL  “NON SO COME DIRE”



Quante volte inseriamo nelle nostre conversazioni quotidiane frasi tipo “non so come dire”, o “non so spiegartelo”?.

In On Writing, Stephen King afferma (in questo caso forse anche un po’ sdegnosamente) che dobbiamo eliminarle dal nostro vocabolario. Come scrittori - o scribacchini- il nostro lavoro consiste precisamente nel saper spiegare e nel saper dire. Se in un dialogo qualsiasi non siamo in grado di tradurre le nostre sensazioni in qualcosa di comprensibile per l’altro, come accidenti possiamo pensare di avere un futuro in questo mestiere?

Per quanto suoni un po’ brutale, questo concetto (che peraltro viene presentato en passant) è quello che più mi ha fatta riflettere di tutti quelli espressi nel libro. Mea culpa: il “non so come dire” io l’ho sempre usato tantissimo. Così ho iniziato a fare lo sforzo mentale di cercare, sempre, le parole giuste.


Quando mi chiedono “Perchè ti piace tanto Málaga?” In genere rispondo sempre “Non so spiegartelo, ha un certo non so che”. Oggi me l’hanno chiesto di nuovo.

Stavo per riciclare la risposta standard, ma poi ho pensato a Stephen King. Cosí mi sono morsa la lingua. Ho riflettuto 5 secondi . E mi sono lanciata in un monologo:

“Mi piace perchè pur essendo una grande città ha una dimensione umana. Ho la sensazione di poter arrivare da qualsiasi parte camminando, e questo mi da un senso di protezione. Perchè nel giro di pochi metri passi dalla spiaggia, alla storia alla modernità. Perché ha mille anime in una. Perché sono meteoropatica al di là di ogni immaginazione, e ho bisogno del cielo azzurro per sentirmi piena di energia. Perché la gente è aperta, ti guarda negli occhi quando cammini, dà la sensazione di preoccuparsi per te anche se non ti conosce affatto. E non importa se non è vero, fa comunque bene al cuore.”

Il mio interlocutore non sapeva più come fermarmi, e probabilmente si sarà annoiato a morte. Io, però, mi sono sentita scrittrice. 


Ve lo consiglio, davvero: provateci anche voi.







LEZIONE #6 - LASCIATE DECANTARE 




Premettendo che ogni scrittore ha le sue abitudini, Stephen King sostiene che è una buona pratica dimenticarsi completamente di un’opera di narrativa dopo aver ultimato la prima stesura. Per almeno 15 giorni consiglia di dedicarsi ad altro. Andar per funghi, fare immersioni, accamparvi all’Ikea, quello che vi pare. Ma non pensare, per niente al mondo, a quello che avete scritto. Chiudetelo in un cassetto. Magari iniziate un altro progetto.

In questo modo, quando riprenderete in mano la vostra opera per rivederla e correggerla, vi risulterà completamente estranea. Solo così potrete analizzarla a mente fredda, e riuscirete a migliorarla per davvero.

Un altro insegnamento importante che ho tratto dal capitolo sulle revisioni (e che, pur conoscendolo, avevo dimenticato) è che la seconda stesura dev’essere il 10% più corta della prima. Vale a dire che le revisioni devono sempre, sempre, sempre accorciare. MAI aggiungere.







Che ne pensate di queste sei lezioni? Vi sono sembrate utili o tutto il contrario? Se vi va, lasciate la vostra opinione nei commenti. Vi leggerò con piacere!  

giovedì 19 novembre 2020

4 idee per un’escursione nella natura senza uscire da Málaga

Quando ti decidi (finalmente?) a rompere un silenzio lungo diverse ere geologiche, il minimo che tu possa fare è giustificare la scelta con un post di pubblica utilità. Questo dovrebbe esserlo per chi, come me, ha scoperto negli ultimi mesi l’inaspettata esigenza di stare a contatto con la natura. 

Tanto per capirci, nel mio armadio non c’è neanche una tuta. Il capo più sportivo che ho è un paio di converse a fiori taroccate che è già tanto se sono riuscite a sopravvivere ai bagni chimici dei festival. L’unico sacco a pelo che abbia mai posseduto in vita mia lo comprai per accamparmi davanti ai palasport, e attualmente si gode un pacifico pensionamento nel ruolo di ripieno della fodera del piumone (comprare un piumone vero mi sembrava uno spreco di soldi, nella Costa del Sol). 

Insomma, non sono propriamente un tipo avvezzo alle escursioni campestri. 

Pare, però, che gli arresti domiciliari imposti dalla PutaPandemia siano in grado di cambiare anche le anime più cittadine - soprattutto quelle che vivono in un appartamento di 30 metri quadri vista strada, con tanto di bidone della spazzatura annesso.

Almeno fino al 23 Novembre, in Andalusia, non possiamo uscire dal nostro Comune. Bar, negozi di abbigliamento e attività non essenziali chiudono alle sei, avviando una quotidiana e progressiva desertificazione dei centri urbani che culmina nel coprifuoco delle dieci di sera. 

La buona notizia, però, è che a Málaga si può passare una giornata immersi nella natura, senza neppure uscire dalla città. Non ci credete? Date un’occhiata qui sotto. 

Ho selezionato 4 luoghi che forse non conoscete e che sicuramente adorerete se volete prendervi una pausa dal cemento di casa, il viavai delle macchine, le luci di Natale e i ragazzini che anticipano la sbronza nei pomeriggi di Pedregalejo. Non ditelo a nessuno, ma quando siete in mezzo a un bosco, senza anima viva nel raggio di centinaia di metri, magari potete anche permettervi il lusso di abbassare un momento la mascherina. 


1. PARQUE DEL MORLACO 

Parque del Morlaco 

















La mia scoperta più recente. Fuori da ogni rotta turistica, il Parque del Morlaco è un gioiellino incastonato tra i villoni di uno dei quartieri più ricchi di Málaga: il Limonar. 

Lo so, agli italiani fa ridere. Pensate che c’è pure un autobus che fa capolinea da quelle parti. La frase tipica dell’Erasmus che se lo trova davanti appena arrivato in città è: “andiamo a Limonar” ah ah ah. Che tenerezza. 

Comunque. Stavamo parlando del Parque del Morlaco, un’area forestale di 161.720 metri quadrati dove troverete tutto quello che si può desiderare per una tranquilla passeggiata all’aria aperta: boschi popolati da scoiattoli, camaleonti e una stupenda vista sul mare. La cosa migliore è che, quando vi stancate di tutto quel verde e di tutto quel silenzio, in circa 15 minuti a piedi arrivate a los Baños del Carmen, che se non fosse un possibile focolaio di Coronavirus nelle Domeniche di sole (sul serio: tutti lì dovete andare?) sarebbe il luogo perfetto per un aperitivo. 


2. MONTE DE GIBRALFARO


Monte Gibralfaro 














Vista dal Monte Gibralfaro 















Famoso per essere stato l'ultimo luogo di Malaga conquistato dai Re Cattolici nel 1487, il castello di Gibralfaro (costruito nel XIV secolo) è uno dei monumenti più importanti in città. Se entrate in un qualsiasi punto di informazione turistica  e chiedete come potete raggiungerlo, vi diranno che avete due opzioni: in autobus oppure a piedi, seguendo il sentiero asfaltato che fiancheggia l’Alcazaba. Difficilmente menzioneranno però la terza via, che io ho scoperto quasi per caso nell’immediato post-lockdown. E, dopo 4 anni di residenza fissa a Málaga, è proprio il caso di dire: “meglio tardi che mai”. 

Quando la libertà di passeggiare era limitata ad un chilometro da casa, mi accorsi che, in fondo a calle Agua (una laterale di Calle Victoria) ci sono delle scale. Salendoci, si accede ad un’enorme area naturale che - udite, udite - si è scoperto poi essere proprio il Monte Gibralfaro. Da quel punto di accesso è possibile raggiungere il castello attraverso i sentieri in mezzo agli alberi, lontani da famiglie chiassose e con la compagnia quasi esclusiva degli immancabili scoiattoli. Certo, dovete mettere in conto salite e sudore, ma il panorama quando arriverete in cima vi ripagherà di tutte le fatiche. 

Una volta lì, potete seguire il percorso (debitamente segnalato) che circonda le mura della fortezza, che è leggermente più frequentato e vanta persino un’area adibita ai giochi per i bambini. 


3. MONTES DE MÁLAGA

Montes de Málaga. Foto: Málaga Hoy 














Montes de Málaga. Foto: Malaga.es












Nonostante sia un’escursione che pianifico ormai da molto, ammetto con certa vergogna di non esserci (ancora!) mai stata. Il motivo? Ai Montes de Málaga non ci si arriva con i trasporti pubblici, e farmi più di 4 ore a piedi solo per raggiungere un posto in cui andrei per camminare è un filino troppo persino per me. 

In assenza di esperienza diretta vi dirò, però, che chiunque ami la natura la consiglia come una tappa IM-PRE-SCIN-DI-BI-LE. Proprio così. Tutto maiuscolo e scandito. 

In effetti l’ha consigliata di recente pure Málaga Hoy, in un articolo dedicato (come questo) a chi volesse “respirare aria buona” senza varcare i confini del comune. Non posso confermare né smentire che, forse forse, ho preso ispirazione da lì. 

Secondo il giornale, sono due i percorsi consigliati agli escursionisti inesperti. 

Il più facile è lungo appena 3 km e inizia dal Carril del Viento, ubicato poco dopo la Venta de El León. Seguendo il sentiero, si può raggiungere il Pico de El Viento, che con i suoi 1.029 metri sul livello del mare è il secondo rilievo più alto del Parco Naturale, che in totale si estende per oltre 5.000 ettari. 

C’è poi un percorso un po’ più lungo (6 chilometri) ma sempre di difficoltà bassissima, che parte dal Mirador del Cochino, da cui peraltro si può godere di una splendida vista sulla città di Málaga e i suoi dintorni paesaggistici. Da lí si prosegue fino a un altro punto panoramico, il mirador Vázquez Sell, attraverso il sentiero segnalato come El Cerrado. La zona é consigliata dalla Junta de Andalucía per l’avvistamento di uccelli rapaci in primavera ed autunno. 

4. JARDÍN BOTÁNICO HISTÓRICO LA CONCEPCIÓN 


Jardín Botánico






















Jardín Botánico




























Se volete stare in mezzo alla natura, ma senza faticare troppo,  il Jardín Botánico è l’opzione perfetta per voi. Si raggiunge comodamente in autobus e all’interno ha un bar/ristorante con prezzi accettabili, un negozio di souvenir, bagni puliti, strutture architettoniche, aree attrezzate per pic nic e comodità di ogni genere. L’unica pecca è che, a differenza di tutti i luoghi fin qui menzionati, si paga per entrare (è gratis solo la Domenica, dalle 14 alle 17.30, orario di chiusura).

Considerato Bene di Interesse Culturale, il Jardín Botánico ha più di centocinquanta anni di storia ed è uno dei pochi giardini in Europa in cui si possono ammirare  piante di origine subtropicale. In tutto ce ne sono più di cinquantamila, di duemila specie diverse, inclusi (oltre alle immancabili palme) i bambù e gli esemplari acquatici. 

Una delle zone secondo me più tranquille per passeggiare nel verde è il sentiero panoramico che parte dalla zona dei cactus. Lì, in genere, il vociare dei turisti si disperde lasciando posto all’assoluta - e a tratti quasi inquietante - tranquillità. 



Avete già deciso quale sarà la vostra prossima meta? 

mercoledì 9 settembre 2020

Un giorno da turista a Málaga ai tempi del Covid-19

Lo scorso mese di Agosto, Esperienza Spagna mi chiese di organizzare un itinerario di meno di 24 ore nella mia città adottiva con lo scopo di raccontare come si vive il turismo a Málaga ai tempi del Covid-19. 

Per metterlo in piedi scelsi proprio Ferragosto: data emblematica che, in circostanze normali, avrebbe dovuto segnare l'inizio della Feria, la Festa più sentita e attesa nel capoluogo della Costa del Sol. Tra musei, chiringuitos, SPA in stile moresco ed escursioni in barca, vi racconto come è andata nel lungo e dettagliato articolo che trovate a questo link. 


Buona lettura! 






LEGGI QUI IL MIO ARTICOLO PER ESPERIENZA SPAGNA 




P.S: Quando avete finito, vi consiglio di cliccare qui per dare un'occhiata anche alle esperienze degli altri "embajadores" italiani in Spagna: raccontano - ciascuno a suo modo e con lo sguardo di chi le conosce bene - la vita e i divertimenti nelle diverse località della Penisola Iberica in questi tempi decisamente anomali. 


giovedì 16 luglio 2020

Ti conosco, mascherina: differenze tra Italia e Spagna nell’estate del post-lockdown

Sarà che il Friuli Venezia Giulia non é mai stata una delle Regioni più colpite. Sarà che la compagnia dei genitori, di per sé, ti rassicura. Però mi guardo intorno e la pandemia, qui, sembra non esserci mai stata.


Arrivo dall’Andalusia: terra in cui, da questa settimana, la mascherina é obbligatoria SEMPRE; All’interno, all’esterno, che si rispetti la distanza di sicurezza oppure no. La devi indossare anche in spiaggia. Persino se sei da solo. A meno che tu non sia disposto a sborsare cento euro di multa per aver fatto finta di non capire.
Foto: El Confidencial/EFE






Arrivo da un posto in cui, nel quotidiano, i discorsi ruotano ancora tutti attorno al Covid. Dove si guarda con terrore all’aumento incessante dei contagi, e si fa il conto alla rovescia verso un secondo lockdown che tutti percepiscono come inevitabile.

Alle cinque del mattino, un taxista affetto da Diarrea Verbale mi portó all’aeroporto di Malaga stampando invettive contro il vetro protettivo. Reduce da un Sabato notte di ragazzini ammassati a bere in piazza Mitjana, parlava preoccupato di incoscienza collettiva. Ed io, sfidando il sonno, gli davo ragione. “Sembra che non gliene freghi niente”, “L’empatia andrebbe insegnata nelle scuole”, “Com’é possibile che le cachimbas non le abbiano proibite da subito?”. 

Quel giorno avevo lasciato il mio ragazzo a dormire a pancia in giù, pensando che chissà se sarei davvero riuscita a riabbracciarlo tra due settimane. Le notizie parlavano di nuove zone confinate in Catalogna, di riunioni con Sánchez per decidere le nuove misure da adottare; E la paura di una chiusura imminente dei confini, nella grandine degli aggiornamenti via social, colpiva forte fino a farmi sanguinare. 

Capirete quindi il mio shock quando sono scesa dall’aereo e mi sono resa conto che qui, nel Nord Est italiano, la mascherina la porto praticamente solo io. All’esterno non é obbligatoria. All’interno, i commercianti fanno finta di non vedere.

Le persone, per le strade, parlano del tempo, dei libri che hanno letto, dell’aperitivo da organizzare, in una normalità che di nuovo ha solo la viscosità del gel idroalcolico sulle mani.

Non dico che sia sbagliato. Davvero, questo non vuol essere l’ennesimo post in cui affermo che gli spagnoli sono bravissimi e noi facciamo schifo. Per niente. In questo caso, non sono proprio in grado di dire chi ha ragione e chi ha torto. Col senno di poi, in Italia la situazione é stata gestita meglio sin dall’inizio. I contagi oggi sono molto più controllati e i dati danno motivo di rilassarsi un po’.

É solo che mi sembra strano, vedere come tutti sembrano avere dimenticato. Avevo letto, una volta, di un meccanismo fisiologico che eliminerebbe il ricordo del dolore del parto dalla mente delle mamme, perché se lo ricordassero non vorrebbero più procreare. É una specie di istinto di sopravvivenza. Un ingranaggio ben oliato che fa funzionare la macchina perfetta del nostro corpo al fine di garantire continuità alla specie. 

Forse, qui, é successa un po’ la stessa cosa. Forse la maggior parte della popolazione ha rimosso l’immagine dei mezzi militari in fila indiana che portavano altrove i cadaveri di Bergamo, perché solo cosí puó riprendere a vivere.

Non lo so. Fatto sta che io quell’immagine non riesco a togliermela dalla testa neanche se la sbatto contro il muro. Come non riesco a togliermi quella dei morti impilati al Palacio de Hielo de Madrid. Non riesco - davvero, non riesco - a non pensare a tutta quella gente morta da sola, o magari guarita, sí, ma dopo tre mesi  su un letto d’ospedale con un tubo - e il cuore dei parenti- in gola. 
Non posso non ricordare le amiche che non hanno potuto dire addio a famigliari deceduti, perché bloccate in un’altra Nazione. Amiche che hanno dovuto assistere al funerale di un genitore, o di un fratello, via cellulare. Riuscite a pensare a qualcosa di più terribile? Perché a me si inondano gli occhi di lacrime solo a pensarci.

Se qualcuno riesce a dimenticare tutto questo, se riesce ad ignorarlo…beh, cavolo, beato lui. Lo invidio da matti, dico sul serio. E mi é anche piuttosto chiaro che, se mai avrò un figlio, sarà soltanto uno, perché quel meccanismo, mi sa che io non ce l’ho.

Tacciavo di irresponsabili gli spagnoli che non sapevano rinunciare all’abbraccio, alla birra sorseggiata gomito a gomito in un chiringuito. M’ero incazzata - soprattutto con me stessa, per non avere avuto i riflessi abbastanza pronti da farglielo notare - con la scarsa attenzione dimostrata da chi, incontratami per caso in un locale, si avvicinava a parlarmi senza mettersi la mascherina. 

Ero tornata a casa di corsa, con lo stomaco contratto dalla rabbia, quella volta che ero uscita a fare la spesa e m’ero ritrovata con un gruppo di 5 adolescenti appiccicati l’uno all’altro, incuranti di ogni divieto. Per non parlare dei turisti, arrivati da chissà dove per ustionarsi la pelle ignari d’ogni esigenza governativa di protezione. 

Mi piacerebbe poter dire il contrario, ma non arrivo dalla Terra Perfetta. Nemmeno in Andalusia, per quanto io la adori,  l’empatia e il rispetto regnano sovrani. Per questo io stessa mi stupisco, oggi, quando penso che, alla fin fine, forse c’é più coscienza civica lì. Ma forse non é nemmeno coscienza civica…forse é semplicemente più paura. 

La mascherina e le chiacchiere del quotidiano non sono l’unica differenza tra Italia e Spagna.

In effetti, sono molte altre le cose che mi hanno lasciato allibita al ritorno in Patria.

Per esempio, qui la “distanza minima” da mantenere tra una persona e l’altra (e, di conseguenza, tra un tavolo e l’altro al bar) é di un metro, mentre in Spagna é di 2. Non dovrebbe essere uguale in tutto il mondo? Le famose "goccioline di saliva" che ti attaccano la malattia non dovrebbero avere un raggio massimo d’azione, studiato da fior fior di scienziati? Va a capire.

Qui non si usano più i guanti al supermercato. In Spagna sono ancora obbligatori (oltre che un attentato ai nervi ogni volta che devi aprire il sacchetto della frutta). Li devi indossare all’entrata e gettare quando esci. Nei supermercati più piccoli, c’é ancora pure la fila unica alle casse.

A Venezia ho notato diversi  turisti con le audioguide alla Chiesa dei Frari, mentre in Spagna sono state tra le primissime cose ad essere abolite, in quanto considerate non igieniche. Per sostituirle, al Centro Pompidou usano pannelli informativi in due lingue collocati di fianco alle opere. In un negozio di cosmetica, qui nel mio paesino natale, ho visto addirittura dei Tester. I Tester! Le aziende di bellezza stanno usando la realtà aumentata per far provare i trucchi in modo virtuale, perché i campioncini gratis, quando non vengono aboliti, si considerano una tra le cose meno sicure in giro.

Fondamentalmente la differenza tra Italia e Spagna, in questa crisi, si riduce ancora una volta al modo di pensare.

Un nuovo lockdown darebbe il colpo mortale all’economia di entrambe le Nazioni. Ma se in Spagna stanno facendo di tutto per impedirlo, qui mi sembra che sia stato il fatalismo a vincere. É un po’ una contrapposizione tra le due filosofie “Facciamo in modo che non ci richiudano” vs. “Facciamo come prima, tanto non ci rinchiudono”.
E, insisto: davvero non so quale sia il modo giusto di prenderla. Quando tutto questo gran casino stava iniziando, presi posizione per il menefreghismo degli spagnoli, convinta com’ero che gli italiani stessero esagerando con l’allarmismo. É venuto fuori che mi sbagliavo di grosso, e proprio per quel menefreghismo c’hanno rimesso la vita migliaia di persone.

Per questo oggi non mi "schiero". Perché, fondamentalmente, sono consapevole più che mai di non capirci un cavolo di niente.

Di sicuro, so che vive molto più rilassati con la scuola di pensiero all’italiana. Senza dubbio sto molto meglio da quando, nel guscio della mia famiglia, mi adeguo a fingere che tutto sia passato.

Dall’altra parte, peró, lo spettro di quello che potrebbe succedere sta ancora lí. Sta scritto nella storia. La storia della febbre spagnola. La storia della Peste. La storia di tutte le epidemie che, nei secoli,  si sono prese una pausa in estate prima di sferrare l’attacco piú micidiale. E, se la storia insegna, allora credo che la precauzione non sia mai abbastanza. Anche a costo di esagerare.
Foto di una famiglia durante l'epidemia di febbre spagnola del 1918




E poi, parliamoci chiaro: La mascherina dà fastidio a tutti. Tiene caldo, é scomoda, ti dà la sensazione di non respirare a pieni polmoni. Vero. Ma quante volte abbiamo indossato per tutto il giorno un paio di scarpe che ci andavano strette, solo perché ci piacevano? Quante volte ci siamo fatte andare bene dei jeans anche se ci stringevano in vita? E, ragazze, non mi direte che vi fa piacere, d’estate, costringervi in un reggiseno! Però lo fate. Lo facciamo. Quindi perché non potremmo sforzarci di mettere una fascia di tessuto sulla bocca? Se proprio non vi va giù l’imposizione, pensatelo come un accessorio fashion da abbinare alle maglie o ai vestiti. Compratevene due o tre con fantasie carine, e divertitevi a scegliere di volta in volta quella che si addice di più al vostro outfit. Io faccio cosí, e vi garantisco che arriva un momento in cui quest’imposizione te la fai persino piacere. Come le scarpe. Come il reggiseno. Come i jeans.

Comunque una cosa c’é, ad accomunare Italia e in Spagna nell’estate del post-lockdown: la fretta nell’aprire i bar e la lentezza nell’aprire gli uffici essenziali. L’accelerazione dei consumi e il rallentamento della burocrazia. Perché, in fondo, nel bene e nel male, rimaniamo pur sempre due popoli mediterranei.