Roy Paci parla grossomodo
come me. L'italiano è fluente (e ci mancherebbe altro) nelle
chiacchiere di semi-circostanza con cui i musicisti intervallano i
pezzi live. Eppure in mezzo, inevitabile, gli scappa una “trompeta”.
Un “tres”. Un “adelante”. Sorrido tra me e me, dal punto di
vista privilegiato di una scalinata vista palco. Poco da fare: mi sta
già simpatico. Esponente di spicco dell'italospagnolismo, e a quanto
pare non soltanto in chiave musicale.
Attacca un pezzo che
parla di Barcellona. Un pezzo che non conoscevo. Da qui l'acustica
non dà il meglio di sé, ma ho già capito che potrebbe senza
impegno anche farmi impazzire. Ah, Dio benedica l'essenza di scoperta
che pervade i concerti gratis! Probabilmente, ancora la forma più
alta ed efficace di promozione. Se non per altri, almeno è così per
me.
Davanti a lui e Aretuska - vabbè la sintesi, ma non dimentichiamoli! - una marea di
persone stipate salta e balla a ritmo di ska. E' l'immagine a colori
della gioia pura. E, se la cerchi, sta pure ai piani alti di un
edificio all'angolo. Là, dove ragazze con il fiore in testa ballano
sui tavoli e qualcuno sbatte coperchi di padelle come fossero dei
piatti da orchestrale balcanico.
Sotto ai riflettori, il
cantante guardandoli accenna al folklore.
Il folklore, già.
Erano anni che non
mettevo piede alla “Sagra delle Raze”, uno degli ultimi baluardi
di manifestazione veramente locale. La disdegnavo, quasi, oberata di
ricordi di serate un po' scialbe da quindicenne passate a mangiare in piatti di plastica e ingolosire zanzare. Io che ho
sempre voluto fuggire. Io che sogno le metropoli, una vita
all'estero, un altrove qualunque dove le radici non abbiano
importanza alcuna. Io che sospiro di sollievo quando mi dicono che
“non ho accento”. Io che questa terra l'ho mio malgrado sempre
vissuta come fosse una prigione.
Come allora, l'animazione da balli di gruppo si oscura nella corrente che salta. Qualche ubriaco protesta senza troppa convinzione. La ghiaia, intanto, scricchiola sotto i miei piedi.
E, chissà come, oggi
tutto questo mi piace. Sarà che sono cresciuta, e ho capito che le
radici in fondo non le puoi strappare. O magari sarà che mi ricorda
la Spagna. Le feste di quartiere dei piccoli paesi o quartieri
iberici, ognuna con un suo concerto, un suo passato, un ammasso di
bandierine e di decorazioni. Feste attese, sempre, in misti d'ansia e
orgoglio. Inneggiate sui social network in miriadi di foto corredate,
a didascalia, da variazioni sul tema “pa mí, lo
más bonito que hay”. Siccome sono contraddittoria di natura,
questo attaccamento alle origini é qualcosa che ho sempre invidiato
ai castigliani.
Quasi
a celebrare le mie stesse sensazioni, ho comprato dei braccialetti ad
una bancarella indiana. Uno ha i colori della bandiera italiana.
L'altro, richiama quella iberica. Li ho indossati, vicini, replica
perfetta del logo di questo blog.
A mó di
postilla: ho scoperto che l'organizzatore del concerto era, fino a
non poi tantissimo tempo fa, un mio vicino di casa. Come
immaginerete, sto giá meditando di inondarlo di bigliettini minatori
con sú scritto “Vogliamo Dani Martín alla sagra delle raze!”.
E sotto, piú
in piccolo, “ma nel frattempo puoi chiamare anche Il Cile”.
Poi io l'ho
sempre detto, che avrei dovuto tenere la musica piú alta.
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