venerdì 6 settembre 2013

Roy Paci e i braccialetti italo-spagnoli

Roy Paci parla grossomodo come me. L'italiano è fluente (e ci mancherebbe altro) nelle chiacchiere di semi-circostanza con cui i musicisti intervallano i pezzi live. Eppure in mezzo, inevitabile, gli scappa una “trompeta”. Un “tres”. Un “adelante”. Sorrido tra me e me, dal punto di vista privilegiato di una scalinata vista palco. Poco da fare: mi sta già simpatico. Esponente di spicco dell'italospagnolismo, e a quanto pare non soltanto in chiave musicale.

Attacca un pezzo che parla di Barcellona. Un pezzo che non conoscevo. Da qui l'acustica non dà il meglio di sé, ma ho già capito che potrebbe senza impegno anche farmi impazzire. Ah, Dio benedica l'essenza di scoperta che pervade i concerti gratis! Probabilmente, ancora la forma più alta ed efficace di promozione. Se non per altri, almeno è così per me.




Davanti a lui e Aretuska - vabbè la sintesi, ma non dimentichiamoli! - una marea di persone stipate salta e balla a ritmo di ska. E' l'immagine a colori della gioia pura. E, se la cerchi, sta pure ai piani alti di un edificio all'angolo. Là, dove ragazze con il fiore in testa ballano sui tavoli e qualcuno sbatte coperchi di padelle come fossero dei piatti da orchestrale balcanico.

Sotto ai riflettori, il cantante guardandoli accenna al folklore.

Il folklore, già.

Erano anni che non mettevo piede alla “Sagra delle Raze”, uno degli ultimi baluardi di manifestazione veramente locale. La disdegnavo, quasi, oberata di ricordi di serate un po' scialbe da quindicenne passate a mangiare in piatti di plastica e ingolosire zanzare. Io che ho sempre voluto fuggire. Io che sogno le metropoli, una vita all'estero, un altrove qualunque dove le radici non abbiano importanza alcuna. Io che sospiro di sollievo quando mi dicono che “non ho accento”. Io che questa terra l'ho mio malgrado sempre vissuta come fosse una prigione.

Come allora, l'animazione da balli di gruppo si oscura nella corrente che salta. Qualche ubriaco protesta senza troppa convinzione. La ghiaia, intanto, scricchiola sotto i miei piedi.
E, chissà come, oggi tutto questo mi piace. Sarà che sono cresciuta, e ho capito che le radici in fondo non le puoi strappare. O magari sarà che mi ricorda la Spagna. Le feste di quartiere dei piccoli paesi o quartieri iberici, ognuna con un suo concerto, un suo passato, un ammasso di bandierine e di decorazioni. Feste attese, sempre, in misti d'ansia e orgoglio. Inneggiate sui social network in miriadi di foto corredate, a didascalia, da variazioni sul tema “pa mí, lo más bonito que hay”. Siccome sono contraddittoria di natura, questo attaccamento alle origini é qualcosa che ho sempre invidiato ai castigliani.

Quasi a celebrare le mie stesse sensazioni, ho comprato dei braccialetti ad una bancarella indiana. Uno ha i colori della bandiera italiana. L'altro, richiama quella iberica. Li ho indossati, vicini, replica perfetta del logo di questo blog.

Roy Paci fa da colonna sonora, e sono come sempre entrambe le mie nazioni.



A mó di postilla: ho scoperto che l'organizzatore del concerto era, fino a non poi tantissimo tempo fa, un mio vicino di casa. Come immaginerete, sto giá meditando di inondarlo di bigliettini minatori con sú scritto “Vogliamo Dani Martín alla sagra delle raze!”.
E sotto, piú in piccolo, “ma nel frattempo puoi chiamare anche Il Cile”.


Poi io l'ho sempre detto, che avrei dovuto tenere la musica piú alta.









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