lunedì 18 maggio 2015

Io, "Lei", Firenze.

Il mio cervello ha questa strana proprietà di estrapolare pezzi di canzoni. Svicolarli dal contesto originario. E riapplicarli, random, a situazioni che non c’entrano alcunché. Immagino lo faccia per il solo gusto di aumentarne la drammaticità. Chè oltre i finestrini del rientro il mondo è sempre in movimento come un film. 
Per esempio adesso, sull’Intercity partito da Firenze, Brunori Sas mi canta in testa che “ti voglio bene, anche se ormai è finita”. Ed io ho una gran voglia di piangere senza motivo.



Si sono spenti i riflettori. E, di nuovo, è stato come se qualcuno mi avesse strappato il cuore dal petto. Per poi ridarmelo, nel tempo di un sospiro, davanti alla bellezza disarmante del Duomo. Io e la mia assurda paura di dimenticare le serate belle. Io che me ne sto in silenzio, a custodire i miei ricordi, persa in quell'equilibrio di pieni e di vuoti che non sarò mai in grado di descrivere davvero. 



E se adesso ci ripenso, a questi giorni, rivedo il tizio in bici con la musichetta da film dell'orrore. Sento Rebecca che dice, calma: “Ragà, ora ci ammazzano”. Ricordo Angela che “mi fa male la faccia dal troppo sorridere”. E ancora la coppia americana del treno, ritrovata per caso tra le strade del centro. Il gelato (e il gelataio, parliamone) del Mercato Centrale. I tizi della Deejay Ten che mi trasformano in impresa il semplice atto di attraversare la strada. La vetrina dell'Hard Rock Café dedicata agli Imagine Dragons (cuoricini). I brindisi col vino rosso. Il mio innato sentirmi fuori luogo, sempre e ovunque, che come per magia diventa invece un susseguirsi di risate. 

Il teatro è la dimensione giusta per la musica del Cile. Non c’è storia. Ché le canzoni, acustiche, si scarnificano per conficcartisi dentro come pugnali appuntiti. Ché quella voce un po' grattata arriva più forte e più netta fino in fondo alle viscere. E si alternano, le melodie, alle parole in prosa. Le abbracciano in una sola trama di dolore e malinconica empatia. Nella lettura che precede Cemento Armato quel peso sul petto si fa talmente pesante da costringermi a deglutire forte. Ed è assurdo, se ci penso, che tutto questo mi faccia stare bene. 



Catarsi, la definirei così. C’è anche lei, in quei silenzi. 
E c’è Firenze, con la sua storia, le sue terzine dantesche sui muri, l'Inferno di Dan Brown e di Tom Hanks, il suo eccesso di turisti per le strade. Firenze. Bella da non volertene andare, arricchita da un altro grappolo di attimi quotidiani protetti dagli ombrelli a pois. 

“Ma noi ce li faremmo, questi weekend, se non fosse per Lorenzo Cilembrini?”, chiedeva Angela sulle poltrone di quel teatro. 
E io avrei visto così tanti posti della Spagna, se non fosse stato per El Canto del Loco, per El Pescao, per Dani Martin? 
Avrei scoperto il fascino di Spilimbergo o di Cesena; avrei dormito su una spiaggia a Jesolo, se non fosse stato per Cremonini?

E’ tutto qui. E’ tutto negli orecchini a forma di chiave di violino che ho comprato questa mattina a Ponte Vecchio. 
Avevo quelle domande in testa, mentre li pagavo. Il cuore tronfio di una gratitudine suprema. 
Pieni. Vuoti. Pieni. Vuoti. Forse un po' più di pieni, adesso, dai. 



E' un tributo alla musica, mi sono detta. Lei che mi fa viaggiare. Crescere. Sentire viva nei modi più impensati. Lei che, in varietà di gusti e di scenari, rimane il motore dei momenti migliori. 

Prossima tappa: Madrid. 

Lo dico a Lei, la Lei con la maiuscola: Ti voglio bene. E non è mai finita. 



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