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martedì 26 febbraio 2013

"Solo due fiocchi".


Promemoria: mai viaggiare a Febbraio. O, quantomeno, evitare di pronunciare con tono spavaldo che “tanto son solo due fiocchi” appena scesa alla stazione di Mestre. Cristiddio, quand'è che imparerò dalle esperienze? Chè, due ore dopo, la pista del Marco Polo è sotterrata da una coltre di neve. Non meno di cinque centimetri, di cui osservo l'incremento con aria via via sempre più preoccupata. C'hanno un bel da fare, tutte quelle macchinine. Salano. Spalano. Lampeggiano d'arancione, a tema con i display. Ed è un mantra di Delayed. Dling Dlong. Turisti inglesi che scattano foto a tutto spiano. Probabilmente invano, visto il riflesso dei lampioni sul vetro. Ma contenti loro... L'autobus che dovrebbe condurci all'aereo, nel frattempo, tarda ad arrivare. L'hostess, al gate di imbarco per Parigi Orly, ostenta sorrisi autentici quanto una moneta da 6 euro. La vedo che è tesa. Ne osservo l'andirivieni sbilenco su un tacco dodici che sono quasi certa leverebbe volentieri. Ne leggo il labiale. “Non mi risponde al telefono, non so dove accidenti sia”. Il caos. Una coppia di argentini, nella beata ignoranza di una lingua straniera, chiacchierano tranquilli del più e del meno. La giovane si riattacca al telefono. Guarda oltre la vetrata. I fiocchi, quei maledetti due fiocchi, scendono intanto sempre più copiosi.



Mezz'ora dopo, il suo sollievo annuncia metallico l'inizio dell'imbarco. Tre quarti d'ora dopo, sto imprecando mentalmente contro i due coniugi francesi che il destino ha scelto come miei vicini di sedile. Disarmante, la loro flemma. Dieci minuti buoni per sbottonarsi il cappotto, non so se rendo l'idea. E poi via, a piegarlo minuziosamente prima di riporlo nella cappelliera. Manco dovessero esporlo su una mensola de La Fayette. Keep Calm, della serie. Keep Calm. Anche se, a causa della loro lentezza, sto drammaticamente bloccando tutto il traffico di passeggeri alle mie spalle. Qualcuno, rimasto troppo indietro per varcare la soglia di quel boeing surriscaldato, accuserà probabilmente i sintomi di una polmonite. E maledirà me. Che sto maledicendo loro. Che staranno maledicendo...boh, forse il cappotto che non si piega bene.

Un'ora dopo, una nube di antigelo ci avvolge accompagnata da un rumore assordante. Sentite scuse dallo staff che – naturalmente – non parla italiano. “It's for your safety”, giá giá. Ma intanto ho già speso cinque euro in sms internazionali, e perso in modo inevitabile l'ultimo bus diretto a casa di Céline. Due ore dopo, indovinate? Sarò ancora ferma lì. Sempre più rassegnata, a chiedermi quanto diavolo possa costare un taxi. Alla faccia dei soliti due fiocchi.

L'annuncio del decollo imminente arriva come un sollievo inaspettato. Un calo di tensione emotiva porta a galla una stanchezza che non sapevo d'avere. Sì, insomma, m'abbiocco all'istante. Ma proprio di brutto, eh? Credo di sognare qualcosa di strano in merito alla tour eiffel e gli eschimesi. In ogni caso, a risvegliarmi è la voce del comandante.

“Siccome l'aeroporto di Orly chiude alle 23.30, potremmo essere costretti ad atterrare a Charles de Gaulle”.

Soppeso mentalmente le parole.

Magari ho capito male.

Aspetta, ora lo ridice in francese.

Non che lo capisca, il francese.

Ma, ecco...quelle due parole...

Orly, aeroport, fermé, charles de gaulle.

Merda. Merda. Merda.

Ho un'immagine nitida della mia amica, intenda ad aspettarmi in un terminal deserto metre io, in terra ostile, cerco di capire come accidenti raggiungerla. A peggiorare il tutto, la hostess scuote le spalle. Mica lo sa, se ci concederanno i trasporti da Charles de Gaulle ad Orly. Chiudo gli occhi. Forse, se mi riaddormento, gli eschimesi mi salveranno. O forse no. In ogni caso...

“Comunque dovremmo riuscire ad atterrare alle 23.30 in punto ad Orly”, insiste il comandante. “Farò quanto in mio potere per riuscirci”. Ed, immancabilmente, diventa il mio eroe.

Perchè sì, il taxi mi costerà effettivamente più del volo low cost; ma alla nostra destinazione originaria, alla fine, ci arriveremo. Dopo un volo durato un'ora scarsa, anziché l'ora e mezza annunciata. Dopo una discesa a perdifiato che mi renderà sorda fino al mattino seguente. Dopo un trionfale “visto? Tutto è possibile!” a cui quel brillante Shumacher dei cieli affibbierà un tono tra il fiero e il divertito. Ad accompagnarlo, gli applausi dei miei vicini di posto, che non hanno battuto ciglio durante tutta la durata del viaggio. Salvo scomodarmi cinque volte per andare al bagno, ovvio. Dannazione, è così difficile tenerla per un po'?

E quindi, niente. Fate caso a me: non viaggiate a Febbraio. Perchè poi potreste ritrovarvi nello spiazzo di Les Invalides, sferzate da un vento siberiano, a ricordare da vicino i 13 gradi sottozero di una Vienna cancellata dai punch. Sarete talmente sconvolte da chiedervi chi mai ve l'abbia fatto fare, di uscire a far del turismo. E inizierete a dubitare della reale esistenza di quei tizi vestiti da M&M's che ballavano il Gangnam Style fuori dall'Hotel de Ville. Meno male che gli ho fatto un video. Altrimenti avrei probabilmente optato per l'auto-ricovero modello Perception. O l'elettroshock d'ispirazione Homeland. O...sì, va bene, guardo troppe serie. Che poi speravo di incontrare il collega figo di Jo, ma rien de rien.

Resta il fatto che poi, in quello spiazzo di Les Invalides, ti viene in mente di farti fare una foto. Ci metti tre anni, a scegliere la preda. Chè quelli sono troppo anziani. Questi qui vanno di fretta. Questi hanno l'aria un po' troppo sconvolta, e quest'altro sicuro che poi attacca bottone. Finalmente trovi quello giusto, un tizio solitario col cappello di lana ben calato sul cranio. E allora un nuovo dubbio inizia a farsi strada in fondo alla tua mente assiderata. Sei in compagnia di due francesi, tra di voi comunicate in spagnolo, e in giro sono tutti turisti. Quale lingua usare? Dopo un veloce referendum si decide per l'inglese. Audrey parte in quarta.



“Excuse me, cold you ta...”
“Qué queréis, una foto, no?”.

Ecco, appunto.

“Sí, gracias! Qué guay, eres español! De dónde?!”
Barcelona, y vosotras?”
No, noi siamo di qui.”
Sullo sguardo del tizio cala un'ombra di (neanche troppo) malcelato scetticismo.
Sí, ma io invece sono italiana.”
Comunque tra noi parliamo in spagnolo”
....”
.....”
Beh, niente, vi faccio la foto”.
Giuro che si vede proprio, che c'ha voglia di scappare urlando.

Due scatti per sicurezza. La sua cartina che gli sfugge dalle mani. La catena delle maledizioni inevitabilmente sul punto di coinvolgere anche lui. Poi ci saluta in catalano. Adeu. Tanto per.

Solo due fiocchi”, insomma. Peró, dai, ne é valsa lo stesso la pena. In fondo ho reincontrato un'amica dell'Erasmus che non vedevo dal 2009. Ho riassunto in cinque minuti le mie vicessitudini degli ultimi tre anni davanti ad un caffé – visto il freddo- viennese. Ho respirato un po' di Spagna nella sala di circense memoria che ospitava il concerto degli Estopa. Sopportato un ubriaco molesto. Scoperto che David, dal vivo, é caruccio mica poco. Anche se, di questo, parleró in un post apposito. Voglio dire, del concerto. Non della sua scarsa fotogenicitá.



Mi sono fatta anche quattro risate al pensiero di chi spende la bellezza di 30 euro per un piatto di spaghetti pomodoro e basilico soltanto perché il ristorante é quello di Armani a Saint Germaine. Ah, e poi ho rischiato di firmare il mio libro nel caffé dei letterati piú storico della cittá. Dove le file per cercare un tavolo arrivano fin fuori e di bohemienne non c'é piú niente, visto il prezzo del caffé. Ci sono entrata. Ho guardato il menú .Sono ri-uscita. Poi ho fotografato la frase piú azzeccata del mondo sull'edificio di fronte, pensando che il mio Ulisse, se avesse preso l'aereo, avrebbe avuto un viaggio tipo il mio.



Non viaggiate a Febbraio. Ma, se proprio dovete, siate almeno pronti a riderci sú. Perché con tutti 'sti aneddoti, se mai avró nipoti, sono certa che non si annoieranno mai. 

martedì 4 dicembre 2012

Episodi surreali tra Venezia e Madrid.


“Ho visto cose che voi umani” eccetera. E stavolta è proprio il caso di dirlo. Sì, insomma, sono stata inseguita da un Winnie The Pooh strafatto. Passo strascinato e zampe tra i capelli, parecchio inquietante da Plaza Mayor in giù. Ho assistito a una rissa tra un bambino e SpongeBob in piena puerta del Sol. Cattivo, il bambino. Gli ha sferrato un pugno in pieno stomaco. Così, senza un perchè. Davanti alle rimostranze del pupazzo, la madre lo difendeva insistendo sul fatto che non fosse colpa sua. Eccerto. D'altronde sono rinomate le irresistibili doti provocatorie di una spugna che vive sul fondo del mar.

Mercatini di Natale in Plaza Mayor 


Dai, sembrava già tutto abbastanza surreale. Serviva mica esagerare, dico io. Chè ho dormito per un totale di tredici ore in tre notti. Due in quella appena trascorsa. Col profumo di Dani Martìn appiccicato ai capelli e i coriandoli sparsi per tutta la stanza, giusto per puntualizzare. Le ho calcolate, le ore di sonno, proprio poco fa sul boeing dell'Easy Jet. D'altronde, sarebbe stato troppo bello trovare dei vicini di posto con una vescica resistente. Murphy non l'avrebbe permesso. E prima si alza lui. E dopo si alza lei. E permesso, e mi scusi. Per l'amor del cielo, ma questi lo sanno che a Barajas i bagni ci sono?! Della serie: Keep Calm and pensa ai momenti trascorsi. Ai componenti de El Canto del Loco riuniti in una sola stanza, per esempio. Con l'intero micro-mondo che vi ruota attorno in mezzo ai palloncini. A David Summers degli Hombres G che mi fissa proprio quando non conosco le canzoni, in quella prima fila raggiunta con fin troppa facilità. 

Un video del concerto degli Hombres G di Venerdí 30 alla Sala Riviera



Oppure al Mercado de San Miguel. L'altro punto da eliminare su una lista; l'incarnazione perfetta della mia immagine di Paradiso. Con la sola differenza che in Paradiso le tapas non le pagheresti nemmeno. Pensa, magari, alla colonna sonora che un delirio di entusiasmo ti ha fatto affibbiare al viaggio. A quel Gannastyle che gioca sul cognome di un'amica. Al “ci vorrebbe Danito”, cantato sulle note di “ci vorrebbe un amico” con cui Micky mi prende vagamente in giro. Alle centoventisei volte in cui mi sono innamorata di ragazzi bellissimi con la barbetta di tre giorni. A tutti gli incontri, in definitiva. Agli abbracci e i ricordi che dalla tua mente non se ne andranno mai più. In ogni caso, comunque, Keep Calm.



Chè la Venezia che mi accoglie è cupa come il mio umore. Ha un cielo gonfio di pioggia e aspettative di acqua alta mentre a me sembra di galleggiare in un sogno. Uno di quelli assurdi, per lo più.



“Quando passa il primo autobus disponibile per Piazzale Roma?”, chiedo al ragazzo della biglietteria ACTV. Ha più o meno la mia età, eppure non riesco a non dargli del Lei. Sarà che sono di nuovo in Italia. Sarà che le distanze, qui, riusciamo ad aumentarle sempre di un bel po'. Io ho la voce impastata. Lui, l'espressione d'uno che si è appena svegliato.

“All'una e cinque del mattino”.

Lo fisso intensamente, cercando invano di dare un senso alle sue parole.

“Ma...e oggi?!”
“Oggi è già passato. All'una e cinque del mattino”.

Rimango lì impalata per altri due minuti circa. Spiazzata, del tutto. Inesorabilmente abbandonata da ogni sorta di capacità cognitiva. Se attorno ci fosse un po' più di silenzio, si avvertirebbe un rumore di ingranaggi provenire dall'interno del mio cervello. Giuro.

“Vabbè, grazie”, borbotto un po' avvilita. Soltanto mentre me ne sto già andando mi viene in mente cosa quel ragazzo potesse aver capito. Torno da lui correndo.

“Intendevo il prossimo. Il primo disponibile nel senso del prossimo, non del primo in assoluto.”
L' “Aaaah” di risposta è quasi un grido di trionfo. Il taglio del traguardo. Il “finalmente” chiuso nel mio sospiro.

Perciò sto lì. Nella mano destra, in formato rettangolare, il mio cimelio duramente conquistato. Non faccio in tempo ad assaporare la vittoria, che una donna asiatica mi si avvicina titubante. Vuole sapere come arrivare a San Marco. Sembra gentile. Spaesata ma gentile. Allora, con mio sommo stupore, faccio sfoggio di un inglese fluente. Di quello che mi scappa dalla bocca solo quando sono stanca, o ho bevuto un bel po'. Le spiego che deve prendere quest'autobus. Scendere al capolinea. Poi, salire su un traghetto. Lei si illumina di troppi grazie. Poi, con sommo orrore, la osservo chiamare i suoi compagni di viaggio mentre mi fa cenno di aspettare lì. Non che del resto possa andare chissà dove, visto che andiamo nella stessa direzione. Morale: nel giro di pochi secondi mi ritrovo attorniata da una decina di giapponesi (o cinesi, o coreani) che mi piazzano davanti ventisette cartine geografiche diverse, parlando concitati nella loro lingua. Tutti assieme. Tutti guardandomi speranzosi. Probabilmente in attesa di risposte a domande che non vedo in che modo potrei capire. I miei occhi sono già da soli una richiesta di aiuto. Riportatemi in Spagna, per Dio!

Uno spritz trangugiato assieme ad Ali in un bar caratteristico, soltanto un'ora dopo, mi stordisce del tutto prima ancora di pranzare. E sì, sono tornata. Sono qui.



Già proiettata in una delle settimane più cruciali della mia esistenza. Pronta a raccontarvi che “ho visto cose che voi umani” eccetera. Pronta, soprattutto, a condividere le Grandi Scoperte fatte in questi giorni a Madrid. Tre, fondamentali.

Tipo l'ubicazione del negozio di dischi più bello del mondo. Beh: di dischi, libri e dvd, in realtà. Ne vende di nuovi e di usati, stipati a migliaia su due piani interi di scaffali e pile. Ci sono vinili da collezionisti. 45 giri e singoli a 1 euro l'uno. Romanzi e cd a tre euro. Offerte speciali “5 euro per tre pezzi”. E simpaticissimi pupazzi dei Beatles da piazzare in salotto. Insomma: un posto in cui passare giornate intere. Un'altra immagine del Paradiso, compendio perfetto al San Miguel.

O la conferma di aver creato un fanclub coi controfiocchi. Composto da persone speciali. Persone con cui ti senti a casa sin dal primo “ciao”, anche se di persona non le avevi mai incontrate prima. Gente che ti asseconda nei tuoi deliri. Che condivide passioni e temi di conversazione. Gente con cui ridere, e gente da abbracciare. Gente di quella a cui davvero puoi dire “sono contenta di averti conosciuto”.

Ma, soprattutto, a Madrid ho scoperto che tipo di locali dovrei frequentare. Finalmente. Alla veneranda età di quasi 28 anni, ché in fondo è meglio tardi che mai. Perchè a La Sal ci siamo andate per “vedere com'era”. Curiose di scoprire cosa attiri così spesso un cantante che ammiriamo ad andarci a suonare cover dei Guns 'n'Roses. Non che avessimo poi molte aspettative. E invece.

Quando mi son decisa a guardare l'ora erano già quasi le tre. Il tempo l'avevo passato a ballare in spazi abbastanza ampi da non ritrovarsi addosso un'ascella sudata altrui. Avevo sorseggiato un gin tonic che era anche riuscito a non darmi alla testa. Cantato a squarciagola i grandi classici del rock, dai Queen ai Led Zeppelin passando per i Nirvana. E attorno – questa è la cosa migliore – neanche una ragazza con tacchi a spillo ed eccessi di glitter. Neanche un eccesso di pose, di trucco, di rifiuti ostentati e facce schifate. Niente. Solo jeans e magliette. Voglia di divertirsi. Di ascoltare buona musica live. Soprattutto, la maggioranza dei presenti era di sesso maschile. Sulla trentina. Con la barbetta di tre giorni e il sorriso divertito. Per caso vi ho già detto delle centoventisei volte in cui mi sono innamorata?

(Continua...) 

sabato 20 ottobre 2012

Ombre e altri dettagli che stupiscono uno spagnolo in Italia.


“Qui la notte arriva prestissimo. Cioé, alle sette è già buio. Il primo giorno ci son rimasta male”.

Inma si interrompe per qualche istante. Tempo di capire se il vaporetto che ora sta attraccando all'ormeggio di Piazzale Roma sia proprio quello diretto a Murano. Niente da fare. Il suo ragazzo, intanto, apre la bottiglia d'acqua appena acquistata alla coop. Fa veramente un caldo disumano, per essere Ottobre.

“E poi ci sono un sacco di ombre. Proprio tante, anche quando c'è il sole. Con più contrasti, ecco. Non è come da noi, con quella luce accecante che quasi brucia tutto. Non so come spiegare.”


Annuisco convinta, mentre l'imbarcazione della linea 3 fa finalmente la sua comparsa alla fine del molo. Il fatto è che spiegare non serve. Almeno, non a me. Io che ho sempre parlato della luce di Spagna come di qualcosa in cui ti puoi soltanto immergere. Una luce calda, piena, che allunga le giornate e detta gli stili di vita. E t'entra dentro, pronta a mancarti non appena la lasci. E' iniezione di vitamina D nel corpo. Dosi generose di benessere, di quelle che ti causano euforia. In fondo ho sempre pensato che la chiave stesse tutta lì. Tutta negli effetti, fisici e morali, di quell'aumento di luce.

Inma, dalla sua Nazione, c'è uscita adesso per la prima volta. Un boeing di Volotea l'ha portata a Venezia, con l'entusiasmo di un viaggio romantico a strapparle un “qué bonito” all'incirca ogni tre parole. E a me fa piacere constatare in prospettive contrarie il fatto che la mia non fosse solo un'impressione.

In realtà le ho sempre trovate interessanti, le prospettive contrarie. Forse per questo insisto nelle domande, anche davanti ai troppi carboidrati di un pranzo isolano. Ho sempre descritto le impressioni degli italiani alla scoperta della Spagna. Ma cos'è – mi chiedo adesso – che soprattutto colpisce uno spagnolo che viene in vacanza qui?

Con l'aiuto inconsapevole di Inma ho messo a punto un breve elenco, ieri. Ché, ad esempio, si chiedeva perché accidenti la gente salisse sugli autobus anche dalle porte posteriori.

“Non ha senso! Se la gente entra dalle porte da cui si dovrebbe uscire, poi è ovvio che nessuno paghi il biglietto. Neanche volendo, riesci a controllare. Ché poi di controllori, sui bus, da quando sono qui non ne ho mai visto uno”.

Sorrido. Del resto, anche questo l'ho sempre sostenuto. Non ci vuole poi molto, a fare come in Spagna. Si entra dalla porta davanti, e basta. Appena salito, o obliteri il biglietto o ne compri uno dall'autista. Se non compi nessuna di queste operazioni, il conducente ti blocca e non ti fa salire. Risparmi anche in assunzioni, visto che i controllori esterni diventano superflui. E di certo non ci si perde più tempo di quello che ci si impiega ad aspettare che si plachi la massa indistinta di persone che salgono e scendono dallo stesso ingresso. In genere spintonandosi come se non ci fosse un domani. Vabbé.

A stranire il ragazzo di Inma, invece, è l'assenza di ghiaccio nei bicchieri dei ristoranti. Meglio non dirgli che è proprio la sua presenza perenne, invece, una delle rarissime cose che m'infastidiscono in Spagna. Ché sono ipocondriaca, dannazione. Se ho sete voglio tracannarlo, il mio bicchiere d'acqua. Il ghiaccio m'impedisce di farlo, visto il panico da congestione.

Di caffè, in compenso, non ne hanno mai bevuto “più buono che qui”. A colpirli, soprattutto, una minuscola torrefazione di Verona. “E dire che io in genere non ne bevo quasi mai. Qui, però, non riesco a farne a meno. E' tutta un'altra cosa, noi proprio non abbiamo idea”. E poi c'è La pizza. Le lasagne. Lo shock da Carbonara senza panna. La pasta, in generale. In quello sì, che facciamo sempre una bella figura.



Peccato che poi ci siano i treni. Le mille categorie diverse di treni diretti nello stesso posto, classificati in sigle incomprensibili tipo RGV, R, FB, FR, IC e manco una persona a cui chiedere indicazioni. Peccato, soprattutto, che ci siano i controllori veneti. Con quella loro mania di trattare gli stranieri a pesci in faccia. Quella di cui tante, troppe volte, io mi sono vergognata. Ché io non voglio generalizzare, ci mancherebbe. Di amici veneti ne ho tanti, e il razzismo proprio non rientra nel loro carattere, come di certo non è insito nel dna dei dipendenti trenitalia. No, affatto. Al contrario, ne ho trovati spesso anche di gentili.

Però, per qualche strana ragione, nelle tratte ferroviarie della regione veneto ho quasi sempre assistito ad episodi incresciosi di insulti smaccati a persone straniere. Come se quei signori con la giacchetta immacolata delle Fs non riuscissero a capire che l'Italia sono loro. Che il loro atteggiamento è parte integrante del biglietto da visita di tutto un Paese. E a me fa schifo, allora. Fa schifo proprio sentirmi dire da Inma che un tizio strafottente gli ha detto che dovevano pagare 140 euro perchè hanno preso, per errore, un treno diverso da quello di cui avevano prenotato il biglietto su internet. Mi fa schifo perchè non ha provato a spiegarglielo con gentilezza. Macché. Perché mentre loro non capivano il suo italiano veloce con spiccato accento veneziano, lui rideva. E non si sforzava nemmeno di parlare in inglese. Non dico nella loro lingua, ma almeno in inglese. Macché. Se non capisci sei tu in errore, è ovvio. Mi fa schifo pensare che quando una coppia di ragazzi poco più che ventenni ha chiesto gentilmente se poteva fare un bonifico dalla Spagna lui li abbia derisi nel grido di “arriba España, olé, olé”. E di sicuro ha anche accennato alle corride. Lo so perché l'ho giá visto succedere. L'ho visto succedere con algerini. Con rumeni. Con sudamericani. L'ho visto accadere con un gruppo di tedeschi. Con qualche indiano. E persino con svariate persone del nostro sud. L'ho visto accadere sempre sulla stessa tratta. Sempre con la stessa modalitá. L'atteggiamento arrogante, la derisione per stereotipi, lo sbuffare in faccia agli altri,senza neanche sforzarsi di provare a capire.

E vi giuro che, se solo ci penso, mi monta una rabbia che non ho mai provato in nessun caso. Vi giuro che, la prossima volta che mi capita di assistere ad un episodio simile, lo filmo. Quant'é vero Iddio, lo filmo e lo mando in giro ai giornali. Perché é ora di finirla, sul serio.

Poi per fortuna che abbiamo la pasta. E la storia. E dei posti meravigliosi. Per fortuna che Inma sorride di una felicitá assoluta, dicendo ancora che l'Italia é il Paese piú bello che ci sia al mondo. Beata lei.




sabato 2 giugno 2012

Resti.


Restano solo una lettera scritta a due mani, un catarro improponibile e il pezzo di un cavo nero. Insensato a tutti, tranne a me. Anzi, no. C'è anche una dedica emotiva che profuma d'indelebile sulla prima pagina di un libro. Ilaria – rileggo in un sorriso – gracias por tu ilusión y por lo que transmites. L'eco della sua voce mi ripete nelle orecchie, ancora, quel “qué grande eres” ogni volta che ho bisogno di tirarmi un po' sú.



Non lo immaginavo cosí, il finale. Non su un regionale Trenitalia preso mille volte. Sul percorso in otto fermate che ha sempre ricondotto alla routine. Ho salutato Céline sotto il cielo grigio di una Venezia malinconica, e Lunedí sembra giá un secolo fa. Uno sguardo al cellulare prima di abbandonarmi al sonno. Lui é emozionato in vista del concerto della sera, piú di duemila kilometri piú in lá. Un concerto che, per una volta,io seguiró solo via web.

Oggi si chiude una tappa. Stavolta per davvero. E dire che sembra un giorno come gli altri, con appena un filo di stanchezza in piú. In realtá mi sento come chi ha perso qualcuno e neanche riesce a piangere. Vorrebbe farlo. Sí, insomma, é quello che gli altri si aspettano, no? Invece, niente. Non ci sono che grovigli di ricordi sul petto, gesti quotidiani, e un'espressione impassibile. Mi sento come se non importasse. Come se non fossi capace di darci il giusto peso, anche se forse il giusto peso starebbe proprio lí. Peró oggi c'é il punto. Oggi si va a capo. Da oggi saranno altri, i viaggi da pianificare.

Su di un regionale trenitalia, soppeso i resti di una bella avventura. Oggi é uno di quei giorni in cui la distanza pesa. Poi, senza preavviso, l'Ipod mi sceglie Ekix. Adesso sí che é un finale da film!


(Prossimamente su questi schermi: i promessi resoconti di Madrid)