Quando parlavo di viaggio “on the road” mi riferivo, più che
altro, alla successione di trasporti via terra che dall'aeroporto di
Alicante m'avrebbe condotta a Cartagena. Definizione applicata al
tragitto sbagliato. Chè i kilometri, a volte, mentono in facilità.
A mia discolpa, Lorca sembrava vicina.
Abbandono le chiavi sul bancone deserto della reception. Semi oscurità alle sette del mattino, e il tizio della pensione, finalmente, sembra dormire un po'. Personaggio peculiare, di quelli che meriterebbero un post a sé stante. Latinoamericano. Colombiano, azzarderei. Passa le sue giornate col pc sulle ginocchia , parlando a voce alta con la sua donna su skype. C'è anche un bimbo piccolo: a volte lo si sente piangere al di là dello schermo, la voce resa un po' metallica dai bytes. Un uomo gentile: ti porta la valigia in camera, storce l'antenna del router nel vano tentativo di amplificarti il segnale. Ti chiede ottocento volte al giorno se hai bisogno di qualcosa. Ma il punto è che la pensione la gestisce lui da solo. E la reception aperta 24 ore mi spinge a dubitare che sia veramente umano.
Comunque. Sgattaioliamo via, dirette alla stazione dei bus. Le gambe
ancora provate dalla sera prima. Era bello, El Batel. E non soltanto
per il bar con vista al mare. Corridoi futuristici, dentro,
conducevano a una sala troppo densa di fumo. Sedie di design
arancione, anteprima di un'acustica tra le migliori mai sentite in
questo tour. Non avevo molto tempo, per raggiungere il mio seggiolino
in fila cinque. Tra pochi minuti sarebbe cominciato lo show. Ma il
banchetto del merchandising era vuoto. I bracciali, tanto agognati,
in bella mostra davanti ad Iván.
“Uuuuuuhhh, las pulseritaaas!”, non avevo
potuto evitarmi di urlare. E quando dico “urlare” intendo
bloccarmi di colpo, iniziare a saltellare sul posto come un
bambolotto a molla e bloccare l'afflusso di gente perplessa che mi
segue. S'era messo a ridere, Iván. Sapeva della mia strenua ricerca.
“Por fin”, rispondevo a mia volta divertita mentre me ne
consegnava due.
Bello,sí, il concerto di Cartagena. Da ricordare
per la sciarpa dell'Atletico Madrid, con cui Dani prolungava i
festeggiamenti sportivi. Per il coro di “Puede Ser” cantato fuori
repertorio, improvvisato dal pubblico. Gesto d'affetto in grado di
inumidirgli gli occhi d'emozione. Da ricordare, perché no? Anche per
quel sapore agrodolce di fine imminente, racchiuso in ringraziamenti
un po' da Oscar, ricordi, e parole d'affetto nei confronti di due
anni meravigliosi. Un concerto a cui lui non m'ha vista, ma a me
bastava sapesse che c'ero.
Comunque. Cartagena-Mazarrón- Lorca: ecco il vero viaggio On The Road. Ché, dopo la sosta a casa di Inma, scopriamo che l'autobus diretto, la domenica, non passa mica. Tocca prenderne uno per Aguilas, per niente gradito all'ensaimada della colazione. La strada é di montagna: tornanti, andanti e conati trattenuti. Molti, peraltro. Carnagione sempre piú tendente al verde, quasi volesse mimetizzarsi con l'ambiente esteriore. “Quando siamo arrivati?”, mi ripeto nella testa come una bambina capricciosa. E quando, alla fine, arriviamo davvero, scopro che il treno per Lorca passa appena tra due ore. Meno male che Sergio ci tiene il posto in fila. E meno male, soprattutto, che c'é un chiringuito sulla spiaggia. A dirla proprio tutta, io resterei pure qui.
Ci arriviamo verso le quattro, al Recinto Ferial di Santa Quiteria. Passiamo accanto a numerose rovine che non vedo del tutto, stremata come sono dalla fame. Facciate come maschere, tristi negli occhi vuoti di finestre dietro cui non c'é alcunché. Il sole é inclemente, sulle distese d'asfalto. Su un posto che dev'essere stato bello, sí, si vede che lo era. Un castello, qualche edificio antico. E un camioncino col megafono da cui qualcuno urla “esta noche, Dani Martín”.
Non avrei pensato di poterlo rivedere. In fondo si
sapeva, che quella notte stessa sarebbe ripartito per Madrid. Un volo
per gli States l'avrebbe portato a duettare con Tony Bennet, non
aveva alcun senso che si fermasse a dormire. Ma in fondo era
sorprendermi, ció che avevo chiesto alla Luna Piena.
Cosí, come recita il galateo delle file, lasciamo che Sergio vada a farsi la doccia. Ha prenotato una stanza in un hotel a pochi metri da lí. Un albergo a quattro stelle che l'aveva attirato con prezzi speciali. Ce ne parlava da giorni: “40 euro la doppia”, un'occasione che di certo non poteva lasciarsi scappare. Quello che nessuno di noi aveva calcolato é che gli hotel del tour erano stati prenotati tempo addietro. Prima. Molto prima. Prima che Dani sapesse che sarebbe dovuto partire per gli States.
La Luna Piena mi ascolta sempre, questo é. E allora Sergio, uscendo dal suo hotel, incontra Dani Martín per puro caso. Lui, in quell'hotel, ci sta entrando. “Voy a hacer una siesta”, gli dice. Che poi é proprio il tempo che ci vuole per sistemarsi il trucco e bere una Coca Cola fresca nel giardino esteriore. Lí, dove gli invitati di un matrimonio si accalcano in progressione: sfilata d'abiti in eccesso eleganti, tanto da sembrare a volte quasi volgari. Con Mar e suo padre chiacchiero del mio erasmus. Ci metto troppa foga, come sempre. Tanta da metterle voglia di partire. E intanto Iván esce dalla porta a vetri, diretto al furgoncino parcheggiato dietro di noi.
Mi vede e mi sorride come ad una vecchia amica: “Hola, buenas tardes!! Nos vemos luego” .
Di fronte all'aumento di un'ignara folla alticcia,
suggerisco ai miei compagni di avventura che forse – e dico forse –
sarebbe meglio entrare.
(...to be continued)
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