lunedì 20 aprile 2015

Quello che ho fatto negli ultimi quindici giorni (o del perchè mi perdo sempre Aprile)

É tornato il periodo piú confuso dell'anno. Quello che ti sfugge tra le dita.

I ragazzi bivaccano in piccoli gruppi, i piedi sospesi nel vuoto, seduti ai bordi del molo audace. Cacofonia di stereo accesi, bottiglie di birra mezze vuote, gli sguardi spensierati verso il cielo. Mi rivedo in loro, avida come sono di questo primo sole. Dei pomeriggi all'aria aperta. Della vita che, di nuovo, sembra sgorgare dopo l'inverno da una fonte troppo a lungo ostruita. C'è un tizio elegante, in Piazza Unità. Riarrangia Viva la Vida dei Coldplay con il solo ausilio di un violino. E, senza alcuna ragione apparente, io mi sento davvero felice.

Aprile se lo perdono tutti, da Sabina in poi. Lo ricordo ogni anno, perchè ogni anno è più vero. Si accumulano i bip sul cellulare, raddoppiano i treni da prendere verso orizzonti comunque rinnovati. Dormi poco, o se non altro meno del dovuto, la testa troppo piena di progetti per far posto a un calendario da gestire. Benvenuta Primavera. Benvenuta alla Speranza che si fa stagione.

Negli ultimi quindici giorni, se mai ve lo steste chiedendo (e capisco che sia interessantissimo), sono successe un bel po' di cose.

Ad esempio, ho dato sfoggio del mio ormai ineluttabile spanglish intercalando con “bueno”, “entonces” e “también” ogni singola frase pronunciata in inglese. Ho litigato con le palpebre cercando di evitarlo in macchina. Convenuto, una volta per tutte, sul fatto che restare sveglia su di un mezzo di trasporto in movimento, se fuori è buio, va contro natura. Ancora, ho dimenticato di spegnere il termosifone prima di dormirci accanto, quando fuori imperava una ventina di gradi. Ho sperimentato con (spero) molto anticipo le vampate della menopausa. Rievocato il Terral nel luglio di Málaga. Brevettato il Maxi-Phon definitivo. Fatto un giro all'inferno per decidere di comportarmi bene. Ma tanto poi aprivi la finestra, e c'erano quei tetti. Con tutti quei camini. Con tutto quel sapore di favola e bon ton. C'erano le montagne, a far loro da cornice. E allora tutto poteva anche andarmi bene. 




Ho scoperto, negli ultimi quindici giorni, che Grenoble è una piccola Parigi incastonata tra le Alpi. Che qualsiasi indicazione, lì, può essere riassunta nel “seguire i binari del tram”. Che non importa in quale Paese tu sia cresciuta: se sei nata negli anni '80, sotto al coperchio di un piatto raffinato, ti aspetterai sempre e comunque di trovarci il granchio della Sirenetta.



E poi ho preso un treno. Ho varcato il confine. Guardato il verde farsi sempre più intenso appena superata Bardonecchia. Ho assaporato un gusto d'altri tempi in una vecchia cabina telefonica dismessa ma tenuta bene. Ho visto il Monte Bianco. Ho visto ponti a metà tra i cantieri infiniti dell'Expo. Ho comprato la cena in una sottospecie di take away bio, pensando che un posto così potrebbe esistere soltanto a Milano. 





E allora ho fotografato il Duomo, sotto un cielo che non credevo potesse essere così azzurro. Mi sono vergognata della frangia spettinata in una città sempre troppo perfetta e frenetica. Chè i passanti muovono l'aria, nel loro correre tra i corridoi della metro. Anche di Domenica. E, nonostante tutto, trovano comunque il tempo di badare a te. Dove per “badare” intendo scansionarti con occhio critico, col probabile fine di individuare le tracce di ghiaia depositate sull'orlo del pantalone nero. Una città da ansia da prestazione. Da insicurezza cronica. Assurda nei suoi pseudo “caffè letterari” in cui un antipasto può costarti 40 euro. E tu ti chiedi se lo sanno, che i veri letterati è già tanto se hanno i soldi per arrivare a fine mese. Poi sono tornata a casa. Ho ribadito che comunque può essere bella, a modo suo, persino lei. Che può esserlo l'Italia, che lo è il mondo intero. Ho sognato teletrasporti. Come il peggiore dei drogati, ho già avuto di nuovo voglia di partire.

Ed ho ospitato, invece. Condiviso chiacchiere e risate con un'altra viaggiatrice. Ho visto furgoni in panne e gelate improvvise cercare di mandare a monte – e non riuscirci – un progetto covato da mesi. Ho mangiato dolcetti siciliani. Mi sono rallegrata per un evento riuscito. Mi sono innamorata di una vecchia macchina da scrivere Underwood. Sentito la gente passarci davanti e dire “Frank”.



Mi sono arrampicata, infine, sulla salita impervia per San Giusto, scovandoci dettagli di street art . E, sapete che c'è? Ho saputo meravigliarmene. Ho saputo apprezzare la bellezza di un tramonto da cartolina, di quelli con il sole fatto a palla, appoggiata sulla spalla di James Joyce. 

E' stato il giorno di quei ragazzi sul Molo Audace. Il giorno in cui ho capito che Aprile me lo perdo perchè mi distraggo a forza di essere felice. 





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