domenica 16 settembre 2018

Oh, See.

Tre del mattino. 
Abbasso lo sguardo sulle scarpe da ginnastica ormai luride. 
"Mio Dio, sono da buttare!"

É la prima cosa su cui mi fisso. 
Ci provo gusto, come se volessi chiedere conferma agli oggetti che la gioia che ho provato è esistita davvero. 
Un bicchiere da lavare. Un foglietto spiegazzato nella borsa. Un braccialetto blu. 

Conto i brillantini incollati sotto i vestiti zuppi di pioggia e birra come ferite di una battaglia bella. 


E le labbra si allargano in un sorriso. 

Per quanto possa sembrare strano, si può dire che l'Oh See sia stato il primo vero festival a cui io abbia partecipato. 
Esclusiva come sono nelle mie fissazioni, ho sempre preferito i concerti singoli. 
Due ore intense- se hai fortuna tre - passate a fissare un palco aspettando la tua dose di emozioni. 


Un solo protagonista. 
Un attimo effimero e bellissimo che non ammette pause o distrazioni. 



Mi emozionava l'idea di vivere finalmente un'esperienza un po' diversa. 
Capire cosa significa passare una giornata intera a trotterellare tra due palchi, con i bassi nel cuore ed un bicchiere in mano. 

Sarei sopravvissuta? Mi sarei - giuro, me l'ero chiesta - un po' annoiata




I preparativi erano iniziati da tempo, nevrotici e solenni nel crescendo di adrenalina.
C'ero io che sognavo le coroncine di fiori del Coachella.
Il meteo che faceva terrorismo preannunciando piogge torrenziali.
C'era la necessità impellente di una borsa abbastanza comoda e capiente da valere la fila alle casse del Primark.
E Nancy che mi mandava le foto dei suoi outfit mentre un tizio mi tartassava per piazzarmi la tessera con gli sconti di non so cosa.
"Y no, mira te lo digo subito...cioé, ya".
NON MI POTETE PARLARE IN SPAGNOLO MENTRE SCRIVO IN ITALIANO. Neanche al contrario.
Dio, che delirio.
E mi son persa al centro commerciale Larios, ritrovandomi al parcheggio con il cellulare in mano.

C'erano i miei amici, che mi chiedevano a intervalli regolari e in tutti i mezzi possibili che autobus dovessimo prendere per arrivare.

"El veinteee, chicos!"

Ci pensavamo tutti, già al live per me un po' troppo rock dei Sexy Zebras. Quando mancavano i kebab e sul taxi che avevo preso di corsa il taxista cantava gli Imagine Dragons.

Il rumore di un tuono. Le dita incrociate.
Poi, quel momento è arrivato.

E, come tutte le giornate memorabili, ha deciso di annunciarsi con eccessivo fragore.
Mi ha sorpresa decretando la morte del vecchio Nokia che usavo come sveglia. Si ringrazia la vescica mi ha fatto aprire gli occhi a mezzogiorno, in mezzo a una caterva di messaggi su whatsapp.

Mierda, ya voy. 
Doccia in tempi record. Incertezza sugli short. 
Come accidenti faccio a dormire così tanto, tío.

Da lì in poi, è stato tutto in discesa. 

Ripenso all'Oh See, oggi.
Oggi che avrei voluto andare in giro per musei, comprare le paste come le famiglie del quartiere, fare una passeggiata sul lungomare. E invece sto qui a prendermi un'aspirina mentre riguardo le foto. La centrifuga della seconda lavatrice in sottofondo e l'elenco di canzoni che mi voglio riascoltare. 

Ripenso all'Oh See. E la mente mi si riempie di immagini sconnesse. 



Io che faccio colazione con la birra ("Beh, ha i cereali"). Il tipo che si impegna a dire che Bob Dylan non è Bob Dylan ("Pero déjame hablar"). Gli sconosciuti che ci riconoscono sui maxischermi. Il fotografo guapísimo del Jagermeister. E fare quattro volte il video a camera lenta allo stand dell'Alhambra perché "el postureo es complicado". 

Ricordo la quantità pressochè infinita di brillantini sulla schiena di Nancy. Andare al bagno degli uomini perchè c'è meno fila. Ballare con le stelle filanti. Il sosia di Sadness. Chiedersi quanti anni ha Coque Malla ad ore improbabili, come se saperlo fosse diventata all'improvviso una questione di vita o di morte.

Ancora, il mal di testa atroce che mi prende mentre suona Iván Ferreiro. Il Gin all'arancia. Dover scegliere se cenare o vedere i Sidonie per poi ritrovarsi a cantare "Por Ti" con un burrito in bocca. 

Il diluvio che ci sorprende mentre suonano Los Planetas. Io che non trovo mai niente nella borsa. Il tizio che si incolla sotto al mio ombrello blaterando robe incomprensibili ("Ma se disturbo me vado, eh?" "Ecco, vai!"). Allungare il bicchiere di birra per chiedere che qualcuno me lo regga mentre tutti credono che io voglia brindare. Facciamo che mi arrangio. Riuscire a mettersi il dannato k-way solo quando smette di piovere. Dico sul serio: chi diavolo li progetta, 'sti cosi?
Il momento in cui ho ammesso, anche a me stessa, che non sono mai stata calciofila ma un po' tifo Málaga. Che una partita alla Rosaleda forse me la vedrei. Che forse mi comprerei la sciarpa. Oddio, ma sono seria? Quando cercavo di spiegare senza successo il thread del russo su Twitter.

Rivivo i miei quattro momenti di puro subidón: No Puedo Vivir Sin Ti di Coque Malla. La Revolución Sexual de La Casa Azul. Años 80 di Iván Ferreiro. La già menzionata Por Ti dei Sidonie.
Che poi, vogliamo parlare di quanto è bella la parola "Subidón"? Non esiste "euforia", "adrenalina" o "esaltazione" in grado di rendere un concetto così.

E "quelli sulle scale". Il cuore di cartone che si rompe. Io che vado a buttare via un bicchiere di plastica due metri più in là; Gli amici, già ubriachissimi, che quando torno chiedono preoccupati "Ma dov'eri? Dove vai da sola?". E lì capisco che "sola" non lo sarò mai.

Decisamente, i festival sono molto diversi dai concerti.

Trotterelli tra due palchi, cambi prospettive, conosci brani e gruppi nuovi. 

Le setlist sono più corte. L'alcol abbonda. L'aspirazione alla prima fila si riduce col passare delle ore. E finisce che chi suona como que te da un poco igual. 
I concerti celebrano la musica, ma i festival celebrano l'amicizia. 

Ed è per questo che, nella mia vita, c'é bisogno di tutti e due. 



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