martedì 27 marzo 2012

MALAGA, PARTE I: La Tempesta.

“Para la Plaza de la Victoria, por favor”

Il taxi prende piano le distanze dal gruppo in attesa, appiccicato al muro di cemento che incornicia il vialetto d'uscita. Lo stesso su cui, qualche ora prima, abbiamo esaltato il social network che ci mantiene in contatto nonostante lingue e città. Follow Friday, letteralmente. Ne scopri il senso tra telefoni ed hotel e non sei proprio certa che sia del tutto un bene. Oggi é andata così. Un cenno della mano a salutarli. Poi, via, verso casa di Grace. Verso un letto non tuo su cui già ti appresti a collassare. Ché domani c'é da alzarsi presto. Che domani...domani, ci speri, darà un senso ad ore perse dentro un centro commerciale. Li guardi da lontano, allora, quei ragazzi. Quelli con cui hai condiviso pomeriggi di sospiri. Hanno reflex appese al collo, speranze adrenaliniche in tumulto di insonnia. Intorno a loro l'auditorium si svuota progressivo, in un incastonarsi d'auto, clacson, chiacchiericci e spazzatura. 



“Sapete se c'é ancora tanta gente che deve...?”

Interrompo il taxista in abitudini costruite di deja vú. “Sí, era tutto pieno. Di taxi ne serviranno ancora molti”. “Muchas gracias”.  I commenti di Celine, intanto, accompagnano il sottofondo di bip alterni delle rispettive macchine fotografiche. “Bella, questa”, e intanto provo a convincermi che sia tutto normale. Anche questo senso di straniamento. Questo non riuscire a credere che sia tutto finito. Di più, che sia accaduto. Questo sentirsi in un sogno, in un delirio di irrealtà. Come un personaggio di una storia scritta da qualcuno che non conosco neppure.  Ma sì, dai! Ma certo che é normale! In fondo ho il male al collo tipico da prima fila. In fondo le prime note di Pequeño sono state testimoni di un altro bacio lanciato. Bacio che ho ricambiato. Bacio a cui ho sorriso. E poi c'é stato l'occhiolino di Iñaki. La gentile premura di Iván nel dirmi che gli spiace, ma i braccialetti , nemmeno questa volta, glieli hanno forniti. C'é stata la musica, soprattutto. Quella dal vivo, che tanto amo, con le piccole sorprese nel cambio di repertorio che fanno di ogni show un'esperienza tutta nuova. E quella in cd, che suona prima che le luci si spengano. A volume troppo basso per esserne certa, eppure forse diversa anche lei. Non é “vieni a vedere perché” quella che riempie l'aria in mezzo al fumo?

Grace non é tornata. Notte brava al compleanno del suo moroso. L'appartamento silenzioso, la mia roba lasciata in giro, un succo di frutta trangugiato di fretta e la sveglia che dice “restano quattro ore”. E' solo mentre penso a dove lasciare il biglietto scritto apposta per la mia ex coinquilina, che capisco finalmente cos'é che mi stona. Ed é che voglio soltanto dormire.  

Sí, insomma, per  la prima volta non sento quest'impellente necessitá di accendere il computer per ringraziarlo su Twitter della serata trascorsa. Per una volta non sento il vuoto, cosí pieno e pesante, che dall'inizio di 16 añitos inizia ad attanagliarmi fino alla prossima data del tour. Un altro concerto di Dani é finito, me ne restano solo altri due prima di una pausa eterna. E non sono depressa come mi aspetterei. Non può essere un buon segno. Ma perché?

Mi accorgo che la causa – o almeno una di esse – sta nella persona che mi dice “in bocca al lupo”, ripetendo convinta che domani lo vedrò. Nel darle la buonanotte, mormoro ancora che sul serio, veramente, mi dispiace. 

E' che un concerto al fianco di tua madre, quando segui un tour intero, ti riempie giocoforza di responsabilità. Le avevo procurato un biglietto in prima fila. Last minute, grazie al mal di schiena di un'amica costretta a Madrid. Gliel'avevo regalato al bancone del dunkin donuts , oscillando per tutta la giornata tra le sue aspettative, l'emozione e la paura di una presa in giro. Un concerto con tua madre é l'occasione di farle capire cosa ti muova attraverso la Spagna. Cosa ti induca a non uscire nei weekend, riempiendo metaforici salvadanai da aprire a scadenza bimestrale. Lei – pensavo – avrebbe finalmente capito cosa mi porta a strappare il cielo a bordo di un aereo, cosa mi manchi quando sono giù, nell'attesa di cosa io viva la mia vita ogni singolo giorno di ogni singola settimana. E allora non importava, se come immaginavo mi avrebbe filmata interpretando nel trasporto ogni canzone in gesti. Se avrebbe bonariamente deriso i miei cori stonati, parlandone con qualunque amico o parente incontrasse. No. Non m'importava perché mi piaceva, per una volta, l'idea di condividere sensazioni con lei. Di girarmi a guardarla dopo un gesto di Dani e dire a lei, invece che alle solite facce, “aaaay, pero qué mono es!”. Per questo avevo accettato che scambiasse il posto con Celine. Eravamo noi due, madre e figlia. Soltanto noi due, lontane dagli altri. E lei avrebbe capito, finalmente. Avrebbe avuto voglia, come me, di ripetere il prima possibile. 

Era anche iniziata per il verso giusto, a dire il vero. Aveva detto “però, ci sono tante signore della mia età”. Aveva detto “è più bello dal vivo”. Aveva detto, anche , che Iñaki García é un pianista eccezionale”. Tre constatazioni consecutive a illuminarmi gli occhi in un “te l'ho detto, io”.  Poi , le profezie funeste di un eccesso di metri tra le sedie in plastica e il palco si sono inesorabilmente compiute. 



Non l'ho piú vista fino alla fine del concerto, mia madre. Il bacio che Dani mi ha lanciato in Pequeño non ho potuto salutarlo esultante, né con lei né con nessuno. Una mandria di ragazzine in esplosione ormonale –diffidare sempre di chi si dipinge DM sulla fronte con il pennarello nero, specie se ci fa seguire un cuore – obbedisce alle aspettative create dal look. Nel giro di mezzo secondo s'accalcano in piedi oltre le prime file. Un delirio di gomitate, transenne da installare,claustrofobia di urla e salti che rimbombano sulle assi di legno. Lo dicevano sempre, che a Málaga il pubblico é passionale. Lo dicevano, che i concerti, qui, non li sanno organizzare mica. Una cosa del genere, peró, proprio non me l'aspettavo. 

Quello che mi stona, a ben vedere, é che ho passato mezzo concerto a litigare con un omone della security. In quell'agglomerato adolescenziale, deve aver scorto in me un volto piú maturo. Ragionevole. Sensato. Sensato, giá. Non imbecille, peró. Mi prende per le spalle. Cerca di trascinarmi al mio posto. Di trascinarci solo me, io che sembro calma solo perché non urlo “guapoooooo, quiero un hijo tuyoooooo” in eccessi di decibel da stordirti le orecchie. Mi spiace, non ci sto. 

“Ascolta, io al mio posto ci tornerei piú che volentieri. Ho pagato, e neanche poco, per un posto seduta in prima fila. Il problema é che tutta questa gente (e se gli chiedi il biglietto te ne accorgerai) ha pagato per un posto in fila 10, 12 o piú giú. Ecco, io non accetto di averli davanti, per cui non penso di schiodarmi finché non se ne vanno loro”

Dopo quattro o cinque ripetizioni dello stesso monologo, il tizio inizia a chiedere i biglietti in giro. Li illumina con la pila. Cerca di ripristinare l'ordine. Ovviamente é inutile, ma almeno mi lascia stare. Mi lascia stare in mezzo a un gruppo di sconosciuti con cui non posso commentare nulla. Dopo che ho fatto piú di duemila kilometri per perdermi almeno quattro o cinque canzoni. 

Il caos si trasforma, intanto, in cori rabbiosi dal centro della pista. Dani Martín ne fa una gag da intercalare alle canzoni. Ma é visibilmente preoccupato, pure lui. “Se pasa mal cuando ves que la gente no está a gusto”. Lui che si accorge che non ci vedo nulla, e si china dal palco a battere sulla spalla di un altro uomo della security, per poi intimargli di spostarsi da lí. 



Lo dirá, il giorno dopo, quando alle porte di un hotel gli spiegheremo finalmente cosa sia accaduto. Lo dirá, che “sinceramente, il posto non era fatto per il repertorio di canzoni che abbiamo portato”. Che non capisce perché l'abbiano fatto suonare in un recinto feriale da concerti rock in piena sbornia all'interno di un tour raccolto nei teatri. Lo ammetterá anche lui, che era organizzato male. 

Ma nel frattempo mia madre...beh, non so se abbia capito. Mia madre, rimasta seduta nel caos generale, non ha visto nulla, ha soltanto sentito. Mia madre si é preoccupata vedendomi discutere con un uomo alto due metri e largo il triplo di me. Ha avvertito i morsi di una specie di claustrofobia che, in quell'occasione almeno, nessuno si sarebbe aspettato potesse accadere. 

Ecco cosa mi stona: mi stona il fatto che, invece di godermi il concerto, questa volta ho passato due ore a preoccuparmi per lei. Il tutto dopo un follow friday letterale a cercare l'albergo in cui avrei finalmente dato al cantante che ammiro il regalo per il suo compleanno. In cui, non trovandolo, mi sarei sentita in colpa di fronte al continuo ripetere della stessa solfa attorno a me.

“E' che se Ilaria gli avesse scritto un messaggio privato su twitter l'avrebbe fatta passare in camerino di sicuro”, “A Ilaria avrebbe permesso di entrare al soundcheck”, “Ilaria avrebbe saputo”, “E' che lui a Ilaria...” . E io che mi sento assurdamente in colpa mentre cerco di spiegare che non ho, né avró mai, la faccia tosta per chiedergli una cosa del genere. Che mi chiedo, addirittura, se forse non abbiano ragione loro e stia sbagliando io. Io che mi rendo conto che, forse, un concerto in un posto in cui hai vissuto non ha soltanto lati positivi. Perché , per esempio, ora mi sembra di star buttando via del tempo. 

Ché Málaga, lo so, mi aspetta fuori. Con la sua allegria frenetica e sempre diversamente festaiola che riempie le strade di terracitas e cervezas sotto un cielo troppo blu. So che la gente, mentre io progetto incontri e strategie al Vialia, sta affollando le strade e i negozi, chiamando a gran voce i ricordi di quei giorni in cui, a casa, non volevo saperne di rientrare. E in qualunque altro posto sarei stata felice, di chiacchierare attorno a un tavolo con persone che non vedevo da mesi. In qualunque altro posto mi sarebbe andata bene cosí. A Málaga, peró...

Ripenso al giorno prima: alle melanzane col miele al tavolo di Pepe y Pepa, alla sabbia della malagueta nelle scarpe da ginnastica, al sole che mi bacia allegro il naso mentre Paseo del Parque dice che gli ero mancata. Málaga é troppo, anche per le speranze di un abbraccio che si spengono ed accendono con la stessa intermittenza di un albero di Natale. 



Prima di prendere quel taxi fuori dall'auditorium, scopro che la giornata aveva dato i suoi frutti, alla fine. Che sí, che non era stato tutto sprecato. Finalmente sapevo il nome dell'albergo, finalmente l'avrei visto, il giorno dopo. E con quella speranza a darmi la forza, con la lieve paura che qualcosa sarebbe andato storto di nuovo, ho pregato in silenzio prima di andare a dormire. E la tempesta, mentre il cielo si annuvolava, paradossalmente era giá passata. Sarebbe andato bene, sí. Bene da morire, una volta di piú. 

2 commenti:

  1. quanto sei dolce...davvero...è bellissima questa tua preoccupazione per tua madre!..ma son sicura che avrà sicuramente apprezzato,e questo momento vi legherà sempre!
    besitos kit

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