C'è del surreale, nel mio primo approccio con Arezzo. Non c'entra il tentativo emulatorio del cielo: Ricalca l'azzurro della primavera inoltrata, lui. Ci prova, quantomeno. Bello, bellissimo. Anche coi guanti addosso e le occhiaie pronunciate di una notte passata a guardare l'orologio.
Nei 15 minuti di cammino dalla stazione all'hotel incappo nell'ordine in: 4 persone che parlano da sole, un vecchio col codino da rocker mai arreso che sbraita qualcosa di incomprensibile a proposito di un portafoglio perso e un receptionist troppo entusiasta.
“Vi stavo aspettando! Ecco la chiave della vostra stanza!”
Saluta me e Marta da dietro il bancone. Mi sembra di vederlo allargare le braccia, oltre allo strato di vapore condensato che mi si è appena formato sulle lenti degli occhiali.
Il rocker, nel frattempo, ci insulta con voce rauca.
“Era sul marciapiedi qui fuori! Cazzo, potevate dirmelo, che era sul marciapiedi qui fuori!”
“Io, veramente, non ho visto niente.”
“Ahahah! Scherzavo, scherzavo. Ahahahah! Non dicevo mica sul seri..hic! Sul serio!”
Dopo di che, mi sembra di tradurre il suo avanzato grado di alcolismo in un invito biascicato a seguirlo nella sua camera. E mentre il receptionist tintinna una targhetta con su scritto “3” cerco di incrociare lo sguardo della mia compagna di avventura. Non ci riesco, ovviamente. Il vapore mica se n'è ancora andato! Tuttavia, credo che “dove diavolo siamo capitate?” se lo stia chiedendo pure lei.
“Le altre due ragazze sono già arrivate?”, riesco a domandare all'omino che, abbandonata la sua postazione, sta già per aiutarci a trasportare le valige.
Si blocca di colpo.
“QUALI altre due ragazze?!”
Lo prendo come un no.
“Sì, abbiamo prenotato una quadrupla”, gli spiega Marta.
“Ahhhh, ma quindi voi non siete [inserire Cognome a caso]?!”
“Veramente, no.”
Requisisce le chiavi che avevo appena afferrato.
“Mannaggia, stavo per darvi la stanza sbagliata!”
Ormai le lenti mi hanno ridonato una visibilità sufficiente. Lo sguardo che mi esce è a metà tra “andiamo bene” e “sto morendo dal ridere”.
Weekend dell'otto dicembre. Ponte raccontato in un presente differito. E almeno due motivi per una destinazione: L'interesse appassionato-accademico di Angela nei confronti di Cimabue, innanzitutto. Poi, magari più inconsciamente, le origini di chi ci ha fatte conoscere. Chè per un attimo ci penso, a quanto ormai sia fregata. Nello specifico, la consapevolezza mi arriva in bagno, tra un sms e l'altro per decidere se, dove e quando pranzare. Sì, insomma: se inizi a costruire delle amicizie sulle basi di una manciata di canzoni, sai che quelle canzoni ormai ti sono entrate a fondo nella vita. Non puoi più scappare. Strapparle via. Forse non puoi neanche più essere obiettiva nei confronti di chi le ha composte. E' la linea di confine tra ammirare ed essere fan. Perchè se vai ad un concerto lo fai perchè ti piace. Se vai a molti, lo fai anche un po' per reincontrare persone. Noi già facciamo piani, in realtà. Piani attorno a qualcuno di cui un tempo non volevo neanche commentare i post su facebook. “Mantieni le distanze, Ilaria; per una volta mantieni le distanze”. Qualcuno che – come ogni dannatissimo essere umano – può deludere. Eppure ti ritrovi a sperare di no; perchè non si parla più solo di un disco, ormai. Assurdo. A tratti inconcepibile. Anche difficile spiegarlo, a dire il vero. Specie se penso a quelle sensazioni.
Io mi sentivo identificata in “Siamo Morti a Vent'anni”. Un solo brano. Tre minuti. E tutto è cambiato. Ero io, in quel momento, piú per le atmosfere che per la storia in sé. Ma il tempo, poi, ha smorzato tutto. Io, quelle cose, non le sento più così.
E allora che cos'è la musica, se non un incontro col Destino? Se quel brano fosse uscito oggi, io avrei pensato “bella canzone”. Punto. Avrei comprato il disco, mi sarebbe piaciuto, ma non sarei fan del Cile. Non conoscerei le altre tre protagoniste di questa piccola storia. E soprattutto, non starei a raccontarvi di un weekend ad Arezzo che è entrato a buon diritto nella lista dei meglio riusciti.
Ne condividiamo, di cose, noi della famosa quadrupla. Le velleità scrittorie. L'amore per l'arte. La tendenza a preferire chi scrive i suoi brani rispetto a chi ne canta di altrui. Ne parliamo davanti a due litri di birra artigianale, o ad una delle crepes più buone che io abbia mai mangiato. Marmellata di fichi e mandorle, che ve lo dico a fare? Ne conveniamo- e in fondo basta questo- tra l'indignazione per gli onnipresenti di Radio Italia o le E troppo aperte di certi rapper milanesi. Per non parlare delle pillole di saggezza delle Zia Angie, con cui non posso certo sperare di competere.
Piuttosto, sarà un aforismo a proiettarmi in memorie a posteriori. Mi pesa ancora nei polpacci, tra ciottoli anti-tacco e pendenze medievali.
“In fondo la salita è solo un altro modo per guardare la discesa”
Lo dicevo mentre arrancavo il mio scarso allenamento verso il Duomo. Poco prima, l'improvviso miraggio di un matrimonio con la percentuale più alta di invitati giovani ed avvenenti che si sia mai vista in circolazione. “Devono aver fatto un casting”. Il perchè degli occhiali da sole in piena sera, ad ogni modo, resta ancora da chiarire.
“Twittala 'sta frase, se la vede Lorenzo potrebbe metterla in una canzone”.
“E' già online da un pezzo...con chi credete di avere a che fare?”
Risate.
Risate.
E poi lo shopping frettoloso imitando Carla Gozzi. I reggiseni improbabili di Tezenis. L'amaro offertoci da un certo Giacomo che (a questo punto, devono essere gli ormoni) si guadagna lo status di “uomo della Gita” all'unanimità.
L'incantevole scritta natalizia “Aggiornare Google Chrome” danza multicolor sulla facciata di una chiesa. Attorno, donne impellicciate si contendono il Sabato pomeriggio con ragazze griffate dalla testa ai piedi. Mi ricorda Parma, questa città. Per l'eleganza di chi la popola. Per il suo essere raccolta, come un paesino un po' troppo cresciuto. E poi per quell'incapacità di apprezzare se stessa, che pare connaturata negli abitanti proprio come nella città emiliana in cui studiavo.
“Cosa ci siete venute a fare, qui? Non c'è niente”
Io, invece, ci vedo dei negozi splendidamente curati. Un sacco di gallerie d'arte. Tanti piccoli angolini da scoprire.
“Tanto Arezzo è morta, di sera”.
E a me sembra affollatissima, dentro e fuori dai locali.
“Noi aretini siamo freddi e chiusi”
Con me, personalmente, mi sono parsi tutti gentili.
Ci ripenso adesso, ad una settimana di distanza. Mi tornano in mente scene pseudo-apocalittiche, come la scarpinata per salite impervie e buie quando sarebbe bastato girare l'angolo per arrivare a destinazione. Oppure la vista pre- tramonto dal Parco “al Prato”, col panorama da stereotipo toscano che ti fa pensare in automatico ai turisti anglo-americani.
“Che bella la Natura, la tranquillità, la pace, la...”
“...Pensa a quanta gente si sarà suicidata buttandosi da qui”.
Mi torna in mente, soprattutto, il silenzio affranto del ritorno. Quella malinconia comune, palpabile, che ti prende inevitabile dopo che sei stata bene. Guidava i passi del ritorno, con il cielo sempre più rosso giù dalla discesa. Sarebbe bastato un brano strumentale in crescendo. Poi, sarebbe diventato un film.
“Scusate, mi sono persa nei pensieri”.
Ripenso ad Arezzo. Alla Musica. Al Destino.
“Fate buon viaggio”, diceva l'omino della reception, dietro ai miei occhiali guarda caso di nuovo appannati. Devo averlo già detto, ma lo ripeto volentieri: quelle distanze, poi, sono contenta di non averle mantenute.
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