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"Grazie". Gli dico soltanto questo.
"Grazie". Gli dico soltanto questo.
C'è una quantità di gente mai vista, fuori dal suo hotel di Valencia. Qualcuno dev'essere stato troppo generoso nel diffondere l'informazione, e ora ragazzine munite di flash mi sgomitano tutt'attorno.
“Ma chi c'è, i uan dairecsion?”, ci scherzerà su lui, arrivato alla millesima firma sotto lo sguardo compassionevole del suo road manager.
Una biondina, al mio fianco, sfoggia una mise finto grunge in tartan e borchie a metà tra Camden Town e il cartone animato giapponese. E' talmente surreale che non riesco a toglierle gli occhi di dosso. Dall'altra parte, una signora che passava per caso prende a sberle il braccio del consorte. “C'è Dani Martín”, gli urla. “Qui! Adesso! Qué fuerte!”. Il marito, in tono molto piú pacato, esprime tutto il suo disinteresse in un “CHIIII?!”
“Massí, Dani Martín, non so esattamente cosa faccia peró si vede alla tele”.
Dopo di che, passa davanti a tutti e gli si piazza accanto per una foto. Dalla reception dell'albergo, un dipendente preoccupato ha intanto fatto arrivare sul posto due agenti della polizia.
“In tutti questi anni non avevo mai visto una cosa del genere”, continuo a ripetere sconvolta in direzione di Alicia. “Cioé, proprio mai”. E intanto penso al reggiseno nero sul palco di Barcellona, alle tizie che la sera prima mi hanno di nuovo schiacciata a una transenna, alle iniziali scritte sulla fronte con il pennarello. La mia anfitriona valenciana, a radice di tutto ció, ha imparato la parola “bimbeminkia”.
Non che dovessi dirgli molto altro, del resto. In fondo, l'ho giá visto il giorno prima, nell'hotel molto meno affollato di un'altra cittá. Ricordo ancora la sua comparsa, a Barcellona. C'era l'urgenza di tornare in fila prima che aprissero i cancelli. C'era l'ingorgo dell'ora di punta. E c'era stata Cris, a farci presente i massacri spazio temporali a cui Céline ed io siamo solite sottoporci per nostra stessa volontá. Era giá passato anche Iñaki, a farci notare l'opera d'arte avanguardistica del telo nero che copriva i lavori di ristrutturazione alle nostre spalle. “E' avanguardistico anche il casino”. Risate. Un furgoncino che parte in direzione soundcheck.
Dopo di che, da un corridoio sul fondo, era finalmente comparso lui. Col bavero del cappotto alzato fino alle guance, un paio di occhiali da sole a specchio tutt'altro che discreti e i capelli sparati tutti carichi di gel. La visione – surreale almeno quanto quella della biondina con le borchie - mi ha immediatamente suscitato un attacco di ilaritá per niente carino, che spero lui non abbia notato. Voglio dire: sono giá abbastanza convinta pensi che io mi faccia di qualche droga pesante, non serve aumentare i sospetti. Ad ogni modo, le circostanze sembrano essere dalla mia. Lui sta parlando fitto fitto con sua madre davanti al balcone di larghezza esagerata della reception; ed é soltanto dopo un po' che si gira. Appena mi vede, seminascosta da una finta orchidea - c'é da dire - scenografica, mi saluta con la mano e si avvicina.
“Hola Ilaria!”, dice prima di stringermi in uno di quei suoi abbracci stretti a cui, malgrado tutto, non credo riusciró ad abituarmi mai.
Mentre dispensa baci sulle guance anche alle altre, trovo finalmente il tempo di presentargli Michela.
“Lei é un'altra tua fan italiana, e quello di stasera sará il suo primo concerto, perció...”
Non mi lascia finire.
“Mi hai portato la pizza?”, le chiede sorridendo. Quindi si cimenta nel gesto con la mano a papera tipo “ 'azzo vuoi” per cui siamo noti a livello planetario (e, probabilmente, anche in qualche galassia lontana). Non contento, si lancia in tutt'una serie di “bella” e “bella ragazza” che ha l'effetto indesiderato di riaccendere la mia ridarella post-occhiali-a-specchio.
Michela la pizza non gliel'avrá portata, peró ha con sé i Baci Perugina. Nel darglieli (mentre io continuo a ridere come una cretina per i fatti miei), gli chiede molto saggiamente che ne é stato dell'annunciata uscita del suo disco in Italia.
“Vediamo questi della Sony...”
“Sì, cazzo, si dessero una mossa, però!”, mi sfugge con verve inversamente proporzionale all'inedita finezza da camionista. Per tutta risposta, lui mi regala un “uffff” che sa molto di solidarietà, abbastanza di “hai voglia!” e anche – a dirla tutta- un po' di “ufff”e basta.
Sentendomi affiancata nella mia battaglia, apro la bocca per lanciarmi in un soliloquio che avrebbe previsto, nella mia testa, una concatenazione di ragioni indignate per cui alla filiale italiana della casa discografica forse quel progetto non sta a cuore quanto a me. Sto per parlargli di come ormai quell'etichetta in concreto sia legata ai Talent. Di come i proventi sicuri, annuali, senza rischio del solo X Factor le permettano di stare in panciolle rinunciando ai rischi di investimenti ulteriori. Di come, tutto sommato, il cantautorato iberico sia ancora un'incognita. Dei vecchi tempi. Del marketing. Del buco nell'Ozono.
Poi, però, un lume di saggezza mi invade. A infonderlo, fattori molteplici e concomitanti quali:
A) La consapevolezza che magari, proprio magari, non è il caso di infamare la casa discografica che lo distribuisce. Distribuirebbe. Disitribuirà. A tal proposito, Sony Ti Vi Ti Bi. Sony io e te tre metri sopra il cielo. Sony sei the reason of my life. Eccetera.
B) Il fatto che, tutto sommato, il palcoscenico di Xfactor potrebbe giocare a mio favore. Voglio dire, potrebbe garantirgli una vetrina in qualità di ospite. E a me, purchè lo vedano, andrà bene. Anzi, per essere chiari a me andrà bene tutto, sempre che non lo facciano duettare con Gigi D'Alessio (in quel caso, mi ritiro in un monastero tibetano e/o mi metto a seguire qualche gruppo indie).
C) L'espressione impaziente della sua assistente, che mentre parliamo gli si è piazzata alle spalle in modalità gufo guardando l'orologio con faccia tirata. Mi sembra anche di vederla saltellare da un piede all'altro.
Fuori, l'ingorgo dell'ora di punta minaccia ritardi che nessuno di noi si può permettere, ora.
Infatti. Io chiudo la bocca. Lui “chicas, lo siento, me tengo que ir”.
Nel dirmi “a dopo, spero che vi divertiate”, mi accarezza i capelli: un altro dei suoi soliti gesti di tenerezza in momenti inattesi. Un'altra cosa a cui non mi abituerò mai.
Quindi, niente: anche se non ci fosse stata tutta questa calca di ormoni con le gambe, a Valencia non mi sarebbe rimasto da dirgli granchè.
“Un beso, Ilaria” , si fa largo tra la folla.
“Gracias”, e sono ancora stretta nel suo abbraccio.
“A vosotras”.
Poco dopo, mentre chiacchiero in disparte con Alicia, Céline gli chiede qualcosa che ha a che fare con “una foto” e il mio nome. Siccome mi indica, deduco stia mettendo in atto quanto mi aveva anticipato poco fa: il progetto di uno scatto che ci ritragga entrambe assieme a lui.
Solo che, mentre mi giro, lui sta rispondendo: “no”.
Ora: vista la sua espressione serissima e la vena da simpatico umorista che esterna di tanto in tanto, secondo me é una battuta. Voglio dire: lei gli avrá chiesto “possiamo farci una foto” e lui ha risposto “no” per scherzo, come a intendere “ti sembra una domanda?”; come ad alludere al fatto che sta posando per i flash di chiunque passi nel giro di un kilometro. Come a...
Insomma, scoppio a ridere, punto.
“Aahhahahah no?! Ahahahah!”
Con orrore, scorgo il suo sguardo tra il preoccupato e l'interrogativo oltre ai soliti occhiali a specchio (sono anche pieni di ditate sulle lenti, per dire).
“No, nel senso che non mi disturbate”, scandisce lento. “Lei mi ha chiesto se mi disturbate...no, é ovvio che non mi disturbate per niente!”.
Tre secondi di silenzio.
“Ah. Cioé...Graz...cioé...la foto, va!!”
Dopo di che, scoppio a ridere di nuovo.
Droghe pesanti. Ormai, che io ne faccia uso, dev'esserne convinto davvero.
...hai dimenticato...SONY TI LOVVVVOOOO!!!:-)
RispondiEliminakitbmbaminkia
ahahahhahahaah è vero! :D
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