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mercoledì 30 dicembre 2020

Cose belle del 2020 (sì, ci sono state)

Foto: Pexels



Prima di lui vidi la valigia.

Un trolley bordeaux riempito di pochi abiti stropicciati presi a caso dall’armadio.
Lo fece rotolare fino al centro della stanza, il respiro affannato di chi ha accelerato il passo per non varcare i confini dell’illegalità. 

Poi mi strinse forte.
Era la sera del nostro primo anniversario. La stanza profumava di lasagna. E in quel preciso istante capii, per la prima volta, il significato della parola “gratitudine”.

Mancava ormai poco a mezzanotte, l’ora in cui sarebbe entrato in vigore il lockdown. 


Per lui non si trattava di arrivare tardi ad una cena. Si trattava di scegliere dove e con chi passare i prossimi tre mesi.

In un appartamento spazioso a pochi metri dal mare o in un buco di 30 metri quadrati con vista sul bidone della spazzatura. Con la famiglia o con una tizia isterica che da giorni non faceva altro che piangere leggendo le notizie sui social. 


“Dato che il posto è piccolo potremmo cambiare di tanto in tanto la disposizione dei mobili” - mi disse - “Fare i turni per la spesa così prendiamo aria. Fare esercizio con i video di youtube”. E il sottotesto era che (povero pazzo!) aveva davvero scelto me. 

Seguì una quarantena di ferias improvvisate, performance sonore coi bicchieri di vetro, canzoni giapponesi, cibo a domicilio, zumba, netflix e risate. Tante. Io ho imparato ad accettare il suo disordine, lui s’è rassegnato al mio essere scontrosa quando scrivo.  Ci sono cresciuti i capelli e - nel mio caso - il diametro del sedere. E mentre il mondo, fuori, impazziva, siamo riusciti addirittura ad essere felici.

I tre mesi sono diventati sei. Poi nove. Poi la ricerca di una casa più grande mentre un gatto randagio ci si struscia sulle gambe dandoci il benvenuto nel quartiere.

Il 2020 è stato orribile, non mentiamoci.
Ma è stato anche l’anno in cui ho iniziato a convivere.

E convivere, in qualche strano modo, mi ha aiutata a trovare l’equilibrio. A riprendere a leggere. A chiudere il computer dopo 8 ore di lavoro. A smettere di andare a letto alle 2 del mattino.

Ho affrontato tante cose da sola.
Da sola mi sono trasferita in un Paese straniero.
Da sola mi sono trovata un posto in cui vivere, un lavoro, degli amici. Da sola ho sopportato influenze, mal di stomaco, lutti, addii, inganni e delusioni.

Ma una pandemia, no, quella sarebbe stata troppo. 


Sarei impazzita. Ne sono sicura. 


Me ne rendo conto ogni volta in cui mi stresso per una sciocchezza e lui con un’uscita improbabile mi calma meglio e più in fretta di un sedativo.

Per questo dico che non tutto è da buttare.

Di fatto, di quest’anno ignobile, ho un altro buon pugno di momenti da salvare.

Per esempio, la cena al buio nel ristorante gestito da non vedenti a Barcellona. Indovinare il colore del vino che mi stavano servendo, non capire chi avessi accanto, soffermarsi sui sapori di pietanze da mangiare con le mani.

Il Red Carpet dei Goya. Il mio primo evento di moda flamenca con l’accredito di rivista specializzata nel settore. L’orgoglio del cartellino con sú scritto prensa e un hotel a cinque stelle in cui sognare di volant.



L’escursione con gli amici a Nerja e Frigiliana. La mia prima (e unica) serata di poesia dal vivo. La banda che suona la musica di Chorus Line in plaza de la Constitución mentre esterno il mio entusiasmo in un vocale. Salire sul tetto della Cattedrale e silenziare le notifiche per fingere che il virus non sia già attorno a noi.


E ancora, il primo giorno in cui siamo potuti uscire e il Parco di San Miguel ci sembrava il Paradiso. La piscina della casa rurale di Frigiliana nel giorno più caldo dell’estate. Ricongiungermi coi miei a Venezia in una giornata che così limpida sarebbe stata difficile anche solo da immaginare.







Poi le ventiquattro ore da vip per Esperienza Spagna. Il relax ai Bagni Arabi. Le tante escursioni in catamarano al tramonto - compresa quella in cui ho perso una scarpa pur di riuscirmi a imbarcare.


Per non parlare del weekend romantico a Tarifa. Truccarsi di tutto punto per passare Hallowen seduta sul divano. Le fughe nella natura e il pranzo al sacco sul Gibralfaro ( "Stiamo creando le nostre proprie tradizioni!"). La vigilia alla spagnola.

Il primo gennaio del 2020, ubriaca sul divano, dichiaravo che quest’anno mi faceva paura. Che mi trasmetteva brutte sensazioni. Che per una mia legge personale che ho sempre visto rispettarsi, a un’annata buona ne segue inevitabilmente una cattiva. Il 2019 era stato troppo troppo perfetto per non far presagire il peggio. Sentivo che il pungiglione liquido di una lacrima iniziava a perforarmi l’iride. Esagerata, dicevo a me stessa. E davo la colpa al vino.

Oggi penso al 2021 con un senso di tranquillità. Perchè a quella legge, adesso, voglio credere più che mai. Ho bisogno di farlo. Ho bisogno di convincermi, come convinta ero delle premonizioni fatte su quel divano, che piano piano, a fatica, questa volta andrà davvero “tutto bene”. 





P.S: Subito dopo aver scritto questo post ho avuto un incidente da idiota con il minipimer, ho passato la serata in pronto soccorso e ne sono uscita con 3 punti su un dito. COSA ACCIDENTI STATE CERCANDO DI DIRMI?

lunedì 23 dicembre 2019

Vincere la Lotteria



É stato bello fantasticare su come sarebbe stato vincere la lotteria. L’appartamento non troppo grande sul paseo marítimo Antonio Banderas. Una stanza insonorizzata da usare come studio, ed io che faccio colazione su un balcone vista mare.

Passavamo in rassegna i viaggi che avremmo fatto. La California. Il Gran Canyon. I paesaggi d’Islanda immersi dalle luci verdognole dell’aurora boreale. Le serrande dei negozi di Calle Cristo de La Epidemia si alzavano sonnacchiose dopo l’orario della siesta e mi rendevo conto - questa volta senza dirlo - che non mi sarebbe servito in fondo chissà che di materiale.

É stato bello anche svegliarsi un 22 di Dicembre per digitare in fretta una serie numeri sul sito delle Apuestas de Estado. Provare a credere per una frazione di secondo che la legge della probabilità si sbagli a mio favore. 

Niente.

Eppure il decimo nel portafoglio faccio ancora fatica a buttarlo via. Forse perché parla di sogni. Di conversazioni a tarda notte sulle credenze delle popolazioni andine. Della capacità, che ancora non ho perso, di sperare a voce alta in un futuro migliore.




E così è tempo di bilanci, pare. 

Guardate, ho fatto pace anche con Monfalcone. Con le sue geometrie quadrate e grigie. Con l’ansia assurda che mi aveva dato il riscoprirla così simile a Sant Cugat - d’altronde, persino a Sant Cugat c’era quel ristorante buono.


In fondo questa volta mi serviva, una pausa forzata nella vita che ho assemblato troppo in fretta giù a Sud Ovest. Dovevo osservarla dalla distanza per capire se la costruzione è abbastanza stabile. Se si sposa bene al paesaggio. Se posso veramente andarne fiera. 



La risposta credo sia sì. 

Il primo Gennaio 2019 scrivevo su Instagram che a Capodanno mi ero sentita amata. E che avrei voluto provare quella stessa sensazione durante tutti i giorni dell’anno a venire. 

Allora forse un fondo di verità c’è, in tutte quelle cavolate da libro d’auto-aiuto; Perché quasi quasi adesso mi sentirei di dirlo anch’io, che se desideri qualcosa l’Universo cospira per fartelo ottenere. 


Ok. Più probabilmente, sono stata fortunata. 




Comunque sia, quel desiderio s’è compiuto. E non soltanto lui. 



Un po’ ho paura di parlare troppo presto, ma fino ad ora quest’anno è stato uno tra i più intensi e meravigliosamente assurdi di tutta la mia vita. 

Nel 2019 ho preso a mani piene tutte le esperienze che potevo permettermi di vivere. Sono stata a decine di concerti. Mi sono ubriacata ai festival. Mi sono abbuffata di canzoni senza mai digerirne nessuna. Ho detto “esco” anche quando la pigrizia stava per vincere. E, alla fine, non me ne sono mai pentita. 

È stato l’anno degli hotel. Dei taxi. Delle tapas al bancone della Tranca, e delle mille serate in Calle Carretería. L’anno in cui il Love, Etc. si è aggiunto alle tappe fisse della nostra personale via Crucis, e Alejandro del Colmado ha iniziato a prenderci in simpatia. 

Quest’anno ho re-incontrato persone che non vedevo da una vita, e ne ho conosciute di nuove che sembrano arrivate per restare. 

Ho esplorato posti che non conoscevo. Sono stata sospesa a centinaia di metri dal suolo sul ponte sbilenco del Caminito del Rey. Ho lasciato i polmoni sulla salita per Álora, ho visitato un castello solo perché mi piacevano le foto che avevo visto sui social. Mi sono sentita sulla Luna mentre saltellavo sulle rocce del Torcal, ho raccolto margherite sul fianco della fortezza di Antequera, ho creduto di morire sbranata da quattro cani incazzati nel mezzo della campagna siciliana e sono rimasta incastrata con la macchina nelle stradine del centro storico di Modica. What a Life. 

É stato l’anno in cui ho scoperto la S.P.A e mi sono innamorata del tartufo e del sushi. Ma anche l’anno in cui mi sono abituata alla colazione andalusa col pitufo con tomate y aceite, ho scelto il mio “bar di quartiere” e quello in cui sono ufficialmente entrata nel tunnel della dipendenza da Campero (non é un panino, é una droga).






Nel 2019 credo di aver imparato finalmente a mettere me stessa al primo posto. A rifiutare un ottimo posto di lavoro senza sentirmi in colpa, se significa rinunciare a vivere dove voglio vivere. A dissentire quando non sono d’accordo col mio capo. A far valere le mie opinioni in azienda. Persino - incredibile ma vero - a mettere a tacere il mio dannato senso di responsabilità di fronte ad attività che io e soltanto io ho scelto di fare. 


E allora pazienza, se una settimana non riesco a consegnare l’articolo per Total Free Magazine. Chissenefrega se non aggiorno il blog per più di un mese. Ho imparato a perdonarmi se qualche volta sono stanca, se non ne ho voglia, se perdo un po’ di tempo a fissare il nulla seduta sul divano. Perché me lo merito. Perché - accidenti - sono umana anch’io.



Una volta in più, ho capito quanto sia importante circondarsi di un buon gruppo di amici quando abiti a migliaia di kilometri dalla tua famiglia. Perché una nuova specie di famiglia, vuoi o non vuoi, te la devi creare. 



Soprattutto, ho imparato che l’amore non c’entra niente con le farfalle nello stomaco, l’agitazione, gli alti e bassi emotivi il senso di costante inadeguatezza a cui m’ero abituata ad associarlo.

Ho scoperto che in realtà é straordinariamente semplice. Semplice come trovare una persona davanti a cui non ti importa di scoppiare a piangere per una sciocchezza, di mostrare i tuoi difetti o di cantare a squarciagola le tue canzoni preferite anche se sei stonata come una campana. L’amore (chi l’avrebbe detto?) alla fine non è altro che ridere fino alle lacrime, struccata e in pigiama, con qualcuno che ti fa sentire a casa. 


Le possibilità di trovarlo passati i trent’anni sono talmente poche che in fondo forse l’ho vinta davvero, la lotteria. 




Si chiude cosí il decennio che s’era aperto con la mia laurea. Il decennio che mi ha (ri)dato Málaga, la partita IVA, le tasse e le responsabilità. Ed io gli dico addio, oggi, con la sensazione di aver gettato le basi - per quanto un po’ sbilenche e decisamente pericolanti - della vita adulta. 


Mentirei se dicessi che provare a immaginarne il seguito non mi da le vertigini, ma saró felice di continuare ad ammassare mattoncini a caso per vedere cos’altro succede. 






Intanto grazie, duemiladiciannove



sabato 30 dicembre 2017

I miei 10 dischi del 2017

Ammettiamolo: a livello musicale, il 2017 non è stato niente male. Denso di uscite almeno quanto lo è stato di fatti. Ma, se i dati di Spotify riflettono piuttosto bene la mia deriva flamenca, non tengono altrettanto conto dei cd messi in bella mostra sulla libreria, degli mp3 in riproduzione casuale su iTunes, degli ascolti ossessivo-compulsivi di quest'ultimo mese. Ecco perchè ho voluto stilare un bilancio più preciso, elencando in ordine di preferenza i dieci dischi che più ho amato di quest'anno in conclusione. 





1. Cesare Cremonini - Possibili Scenari 

Capita di andare a dormire e risvegliarsi nel 2011. O almeno è questa la sensazione che provo, quando ascolto Cesare in loop costante e mi emoziono perchè Dani Martín lo esalta su Twitter. Non fosse per Málaga, direi che niente è mai cambiato. Sono ancora la ragazzina battezzata di birra sui capelli e transenne deformate di spintoni al primo concerto dei LunaPop. Quella che alle otto del mattino trascinava le occhiaie fino alle porte dell'hotel Vincci pur di regalare l'ennesimo album del solito italiano a un tizio di Madrid. Allora
 play. Finisce. E play di nuovo. Sarà pure uscito tardi, ma Cremonini torna ed essere quello della Teoria dei Colori, del rumore sinistro di una copertina inzuccherata di Coca Cola, dell'estate su una barca, e Parma e i progetti per il futuro. Gli arrangiamenti raffinati di Possibili Scenari sono la versione adulta di quel qualcosa di inspiegabile che in quella voce mi ha sempre stregata. Capitolo mille, capitolo uno.


Tra le tante cose da segnalare in questo 2017 c'è senza dubbio la maggior quantità di indie rock tra i miei ascolti musicali. Non mi ero mai presa la briga di conoscere i Vetusta Morla al di là delle loro hit più note. Capo cosparso di cenere. Mia colpa. Mia grandissima colpa. Questo disco mi è piovuto addosso come pioggia fresca dopo anni di siccità. Mi ha stregata. Rapita. Conquistata al primissimo ascolto per soggiogarmi del tutto dal secondo al millesimo. É uno di quei lavori in cui la traccia preferita cambia di giorno in giorno, a seconda dello stato d'animo. Quelli che ti sembrano ogni volta in parte nuovi, con il tipo di sound eterno che probabilmente anche tra dieci anni continuerai ad apprezzare. 


Ancora ricordo quando, spinta dalla curiosità delle eccessive lodi, ho ascoltato per la prima volta questo disco su Spotify. Vivevo ancora a Huelin. Il sole inondava il soggiorno e un mondo intero mi si spalancava con le prime note. Ricordo di aver pensato che era da tanto che un italiano non scriveva testi così perfetti, raccontando nello stesso istante un preciso momento storico e l'individualità qualunque di chi come me si trova a viverlo. Canzone contro la paura, La Verità, il Costume da Torero...quante volte, da allora, ho tediato i vicini nella megafonia naturale del patio! Quante volte mi ci sono specchiata! Quante volte è stato un vero peccato che non potessero capirne le parole. 




Signori della Universal, per Dio, date a quest'uomo la visibilità che merita. É un appello accorato, il mio. Ché investire nella rotazione sui network top 40 non basta mica, se lo fai solo con il primo singolo. Era Bellissimo è stato per l'italiano medio la promessa di un Grande Ritorno di cui ha subito perso le tracce. Buttami via, parliamone, era persino meglio, eppure i passaggi sono stati dimezzati. Ogni volta che ascolto brani come "La cenere dal cuore", "Da domani", "Il lungo addio" o "Mamma ho riperso l'aereo" sbotto per la rabbia di una profonda ingiustizia. Questo disco è stato il parto complicato al culmine di una gestazione troppo lunga, valsa trasferimenti, trasferte e cambi di vita. Ma l
'italiano medio che ne sa. Lui continua a non sentirlo in radio, a ricordarlo per (sigh!) Maria Salvador; e proprio non ha idea di cosa si perde. 






Lo so cosa state pensando: soltanto al quinto posto? In una classifica MIA? Eh. Il punto è che Evolve non è stato un disco facile da apprezzare. Per quanto adesso lo adori, e per quanto ammiri da sempre chi ha il coraggio di sperimentare con i sound,  è inutile negare che non raggiunge i livelli di Smoke+Mirrors o Night Visions. Ad ogni modo canzoni come Believer, Whatever it takes, Walking the Wire e la mia adorata Yesterday continuano a rendere questi quattro ammeregani imprescindibili nella colonna sonora della mia esistenza. Ai Grammy, manco a dirlo, tifo per loro. Sono convinta che li meritino, e di gran lunga molto più di Despacito. 





Mi sembra passato un secolo da quando, all'inizio dell'anno, El Pescao rinasceva con il suo nome, di nuovo sotto etichetta Sony. Un secolo dal trailer con l'evoluzione da pesce a uomo con chitarra, dalle anteprime nella sede di Twitter Spagna, da quando ero uscita per cercarlo alla Fnac. Due concerti, un'intervista e tante avventure dopo sono ancora affascinata dall'autobiografismo estremo di David y Goliath; E come allora resto innamorata di Me Voy, su tutte, perchè l'atto di andarsene ha sempre suscitato su di me un qualche tipo di assurda, pericolosa attrazione. 





Se il lavoro precedente dei Baustelle mi aveva lasciato un retrogusto amaro in bocca, con questo mi hanno riconquistata. Amanda Lear, Eurofestival e Il Vangelo Di Giovanni mi hanno accompagnata di playlist in playlist, riassumendo a perfezione il mood di un album che mi riporta ai tempi in cui li amavo per Baudelaire, Un Romantico a Milano o Charlie fa Surf. Un bentornato di inizio anno che è ancora riscoperta undici mesi dopo.







Chi ha condiviso con me anche soltanto una minima parte di questo 2017 sa bene che questa band ne è stata una componente tanto imprevista quanto essenziale. Da quando mi hanno stregata con La Inmensidad fino a quando ne ho apprezzato le qualità live alla Fnac c'é stato tutto un mondo fatto di notti tarde ed Héroes del Sábado, pulizie pomeridiane, Himno Nacional e secessionismo in televisione. Come in una scelta di doverosa continuità, il loro concerto sarà presumibilmente il primo a cui assisterò nel 2018. 







Gli applausi di Sanremo. Il bagno di lustrini dell'Eurofestival. Le spagnole quasi tutte innamorate. Il Gorilla come icona nazionale. Chiunque dica di non aver ascoltato nemmeno una volta Occidentali's Karma mente e chi non ha dato almeno una possibilità all'album che lo contiene si è sicuramente perso qualcosa. Francesco Gabbani è stato senza dubbio uno dei personaggi dell'anno. In un'abitudine tutta nostrana, più di tre quarti dei tuttologi col web gli ha voltato le spalle nel momento in cui si è permesso di "criticare" gli Afterhours, dimenticando che fino a poco prima stava per dichiarare guerra a San Marino in virtù dei punti che non gli aveva affidato. Poco male. Al di là degli snobismi e delle posizioni estreme, oggi restano i suoi diari di viaggio formato video dal palcoscenico di Kiev, la mutua ammirazione tra lui e il portoghese e - soprattutto - brani come lo scoppiettante "tra le granite e le granate", l'attuale singolo in rotazione "la mia versione dei ricordi" e quello che dà il titolo al disco: in assoluto il mio preferito. 






La già vertiginosa aspettativa per il nuovo album di Sabina era stata alimentata dalla produzione di Leiva e da due singoli a dir poco perfetti come "Lo Niego Todo" e "Lágrimas de Mármol". Alla resa dei conti, però (e forse proprio per quell'eccesso di aspettativa) il disco non mi ha convinta quanto avrei voluto. Forse troppo denso per una masticazione agevole mentre pulisci le finestre col Vetril, resta comunque degno di nota in virtù di brani come "Canción de Primavera" e  frasi come "Si no estás enamorada, vente al Sur ". 




Tra le altre uscite discografiche dell'anno non posso non menzionare poi la leggerezza solo apparente di Rozalén, il recente greatest hits di Dani Martín, il nuovo lavoro dei Negramaro e l'osannatissimo Camino, Fuego y Libertad di Pablo López, che però devo ancora ascoltare. E voi quali dischi del 2017 avete amato di più? Condividete la vostra top 10 nei commenti, se vi va: sarò felice di trarne ispirazione per gli ascolti dell'anno a venire!








sabato 23 dicembre 2017

Il mio anno in 17 Tweet (in 12 non ce l'ho fatta)

Natale è un lavoro duro. Ti preme il tasto dell'"avanti veloce" dentro a un vortice di frenesia. Del tipo compra regali, impacchetta regali, siediti sulla valigia per farci stare i regali. E poi spacchettali subito, a porte chiuse, ché la carta si é rovinata nel viaggio. Re-impacchettali in cromatismi invertiti. Contemplali soddisfatta sotto un albero decisamente più professional del tuo. 




E' arrivato Santa Claus! Con le corna delle renne in un sacchetto Antequerana e la slitta a forma di Boeing della Ryan Air. A dire il vero é un po' provato. Ha gli occhi stralunati di chi rimane incastrato contro-corrente nella ressa del Sabato in Plaza Constitución. Quelli di chi mette la sveglia anche nei weekend perché entrare in qualsiasi negozio, altrimenti, esige i sacrifici di una fila da concerto. E Santa Claus, biglietti in gradinate, ormai comincia ad avere un'età. 

In ogni caso gli hanno detto che la porta bene. Che "da quando vive là" nelle sue iridi sono rimaste appiccicate le lucine. Colpa del Prosecco, risponde. Ma sa che, almeno in parte, hanno ragione. 

Natale è un lavoro duro, sì, però bellissimo. Fatto di video da girare. E mille cene, e abbracci, e tea coi biscottini. Natale ha il gusto del vino rosso con cui brindare ai rientri. La voce della tizia scorbutica - estamos en el bar de la loca - che ti prende le ordinazioni sotto ad un presepe inguardabile fatto coi cicciobello. Poi è normale che alla lotteria non vinci, perchè hai sprecato tutta la tua fortuna nel tramonto rosso fuoco che si abbatte su Plaza de Capuchinos. 

Forse, adesso che può riposarsi, Santa Claus li scriverà davvero tutti quei post. Quelli soliti, che parlano di bilanci. Perchè alla fine dell'anno si tirano le somme, e si sa già che il risultato sarà a doppia cifra di soddisfazione. 

Ci pensavo sull'aereo, quando le luci delle case sotto i piedi mi sembravano costellazioni all'ingiù. Il pilota gracchiava dall'altoparlante qualcosa in merito alle isole Baleari, e qualche lieve turbolenza si trasformava in buche su una strada sterrata nella confusione di una mezza fase REM. Pensavo che è difficile ricordare tutto quello che é successo nel duemiladiciassette. Che da quando vivo a Málaga un anno ne vale cinque. La mattina sembra ieri. Gennaio, quasi un secolo fa. 

Naa. L'unico modo per farli, quei bilanci, sarebbe stato rileggermi i tweet. In fondo passare la vita su un social network dovrà pur servire a qualcosa, oltre a farsi ascoltare in merito alla necessità di un'opzione segnalibro e al suo essere privata

Così ho scaricato di nuovo l'archivio, sopravvalutando di netto le mie abilità di sintesi. Volevo ripercorrere quest'anno in dodici cinguettii ma, anche così, non ci sono riuscita. Diciassette è stato il meglio che sono riuscita a fare. Perchè ho vissuto, come dice quella canzone. Con ogni osso rotto, lo giuro, ho vissuto un bel po'. 

Insomma: parzialmente e molto all'incirca direi che questi sono stati gli highlight. 

A questo punto, non mi resta che augurarvi buon Natale. 




GENNAIO 

La vita a Huelin e le mie camminate infinite sul Paseo Marítimo Antonio Banderas. 



FEBBRAIO

Le sfilate di moda flamenca e l'inspiegabile potere di attrazione di Sanremo sugli italiani all'estero.





MARZO

Il Festival del Cinema, i Red Carpet, Tony e DioQuantoéFigoHugoSilva.





APRILE

Primavera: gli ormoni in subbuglio...



...  E la Feria de Abril a Siviglia.





MAGGIO

#Trasloco




GIUGNO

L'estate degli eventi importanti: lo spettacolo di Ursula Moreno, quando ancora non sapevo che sarebbe diventata la mia insegnante di flamenco di lì a pochi mesi.




E poi San Juan.



E poi il Talking About Twitter a Granada.



LUGLIO

Rimpatriare per i concerti (#Zammatopdeuorde)


E celebrare le piccole, grandi soddisfazioni.



AGOSTO

Agosto means Feria.



Ma anche...







SETTEMBRE

Rivalutare nelle spiagge deserte un mese che avevo sempre odiato. Peccato per l'attualità, che entra di prepotenza nella vita sotto forma di bandiere.






OTTOBRE

I piccoli problemi della vita quotidiana, quando in pieno autunno ci sono ancora 30 gradi.



NOVEMBRE

I piccoli problemi della vita quotidiana, quando in pieno autunno ci sono ancora 25 gradi, ma non sempre.



DICEMBRE

Christmas time!


domenica 1 gennaio 2017

Il primo post dell'anno.

Buon anno a tutti, anche alla mia partita IVA. Mi attende in Spagna - simbolo suo malgrado - con tutto l'onere del mettere radici. Mi torna in mente ogni tanto, nelle lievi fitte d'ansia che mi prendono di notte nel bel mezzo di un countdown. Tanto voler tornare, un poco no. Stato letargico di abusi calorici. Le feste. Il piumone. Il coma della sveglia che non suona più. Premere pausa nel gran disco della vita, è questo il mio adesso. E allora io ci penso, all'incertezza sullo stato della mia mini-pianta comprata all'IKEA ("si chiama Gina"); A quando le parlavo, all'amica a cui l'ho affidata, ai fiori rossi che chissà se rifarà. Sul petto ho tutto il peso dei sassi lasciati da decorare all'ingresso. L'astio del fuori controllo riassunto nei panni ancora chiusi nella lavatrice KO. La nostalgia delle foto affollate. Il loop infinito dei messaggi su whatsapp, l'eternità dei "no te preocupes" andalusi che spazientiscono di pigrizia e posposto quello che resta del mio essere italiana del Nord.

Buon anno. Ché è iniziato senza troppa voglia d'eccessi, sulle note di un classico rock come Smoke On The Water. Discorsi d'arte, fuochi artificiali riflessi sulle finestre, il timer dell'iphone impostato male e il sorriso di bambina che ti scappa dentro alle bollicine del rosé. Buon anno inconsapevolmente accompagnato da sincronie augurali di "tanti soldi", che da brava italo-spagnola ho cercato di propiziarmi con un piatto di lenticchie seguito da dodici chicchi d'uva. Perchè saranno pure materiali, quegli auguri, ma sono ahimé l'unica via d'accesso ai viaggi e ai concerti con cui voglio cercare di dare ancora più senso alla mia nuova vita vista mare. 



E non sarà facile, lo so. Perchè sarà l'anno in cui cercare casa nelle complicazioni dell'estate. In cui gettare le basi per un futuro vero, senza scadenze trimestrali per Natale. La nostalgia sarà più dura. Le rinunce più importanti. Ma il mio istinto, l'uno Gennaio, a quanto pare sbaglia poco; E, nella premonizione dei dispari controcorrente, il diciassette mi ha sempre portato bene.

D'altro canto, se qualcosa mi ha insegnato lo schifo universale a cui abbiamo appena detto addio, è che persino nelle circostanze più tragiche c'è spazio per il riscatto finale. Perchè è quando piangi tutte le lacrime del mondo che trovi il coraggio di prendere la decisione che rimandi da una vita. 
É quando un pretesto impone una deadline a un obiettivo che lo porti a termine. É quando la follia del Pianeta ti mette di fronte alla fragilità della vita che tu - per dispetto e per amore, tutto in maiuscolo - VIVI. 

E allora sono qui, ancora una volta, a rileggere i propositi fatti all'inizio del duemilasedici. Per qualche strano gioco del Destino, la radio passa Buon Viaggio di Cesare Cremonini proprio mentre i miei occhi si posano su quella citazione. Ne sa, sí. Dio, eccome. 

Ne ho rispettati cinque su nove. La maggioranza. Una buona media. Gli altri me li porterò dietro come uno strascico, sperando di sporcarli di sabbia e non di fango sul bagnasciuga pieno di conchiglie sotto la mia casa andalusa. E a questo duemiladiciassette, per il resto, chiederò soltanto le solite cose. Le più importanti, da sempre. Le promesse che ogni anno, grazie al cielo, continuo a rispettare:

Vedere almeno un posto in cui non sono mai stata (grazie Amsterdam, grazie Roma); conoscere almeno una persona che attualmente non conosco (grazie Alice, grazie Laura, grazie Veronica; e grazie Davide, e Simone, e Pablo, e Pedro, e Francesco, e Javi, e Luisa, e Isa, e Carmen, e Andrea, e un appello lunghissimo che è meraviglia di infiniti eccetera). Ma, soprattutto, essere felice. 





Postilla: ieri sera, poco dopo mezzanotte, ho aperto Twitter per rispondere a una notifica di auguri. Era ancora il mio compleanno, in Colombia e negli States. Oltre alle emoji coi coriandoli, però, mi è apparsa davanti agli occhi la notizia della Turchia. Mi è tornata in mente quella ragazza di Istanbul conosciuta ad una serata di scambio linguistico in una tetería del centro. Quella che aveva una paura matta - e però doveva, di lì a poco - tornare a casa. Una mia coetanea, innamorata della Spagna e della libertà. Un'insegnante. Una sognatrice. Ho pensato a tutti i suoi progetti, al fatto che si stava per sposare. E l'organizzazione del viaggio di nozze a Cuba, e l'amico di una vita in cui aveva dopo anni scoperto l'amore. E le sere in cui usciva con la sua compagnia di amici, in qualche bar. Era iniziato un nuovo anno, ci si aspettava che io fossi felice, e tutto quello a cui riuscivo a pensare era che avrei voluto avere il suo numero, un cognome per cercarla su Facebook, un cavolo di contatto che mi permettesse di sapere come stava.

Il punto è che ovunque nel mondo c'è qualcuno come lei. Come te. Qualcuno con cui, se solo ti capitasse di parlarci un giorno al tavolo di una tetería, scopriresti di avere un sacco in comune. E allora nessun posto è più abbastanza lontano. Nessuna notizia è più abbastanza indifferente. Nè potrà esserlo mai. 

Ho chiuso Twitter. Ho fatto finta di non aver letto niente per non rovinare la serata agli altri. Ma l'amarezza - maledetti, maledetti, maledetti - rimane come il sottofondo di una canzone brutta e fastidiosa. 



domenica 14 febbraio 2016

Cose che salvo di questo Sanremo.

Doveva essere solo una riflessione estemporanea da condividere su Facebook, ma - come spesso accade, specie dopo una sbornia televisiva lunga cinque giorni - mi sono fatta un po' prendere la mano. I bilanci, in fondo, mi sembra giusto e doveroso pubblicarli anche qui. 

E quindi eccole, le (poche) cose che salvo di quello che personalmente credo sia stato uno dei Sanremo più noiosi e musicalmente brutti degli ultimi tempi:


1. Francesco Gabbani, che per me si chiama e si chiamerà sempre Federico. Si merita la vittoria nei giovani, il Bardotti (la cui assegnazione, tra parentesi, non mi delude quasi mai), il premio della critica, i coriandoli, la speranze ritrovate in un futuro roseo e magari anche uno stilista nuovo.



2. Chiara Dello Iacovo, di cui non ricorderò probabilmente mai il cognome. Perchè se non altro qualcuno ricorda ogni tanto che il concetto di ritmo esiste ancora e che il vocabolario, nei testi, può spingersi un filino più in là del cuore-amore.

3. Ruggeri. Perché la sua era la miglior canzone tra i big, senza se e senza ma. Punto.

4. Hozier. Anche se il modo in cui Conti tratta gli ospiti stranieri si conferma imbarazzante. Cioè, lo paghi fior di quattrini, lo fai salire sul palco a mezzanotte e quarantasette minuti, gli fai cantare il singolo vecchio e lo liquidi senza manco chiedergli, chessò, che tempo fa in Irlanda o se va tutto bene a casa. Bah.

5. Elisa. Perché il suo “BON DAI” mi ha fatto scoprire un insospettabile campanilismo della serie “Monfalcón xe mejo” (ma poi, mejo de che?) e perchè aveva un vestito semplice e bellissimo. A quelli che si sono messi a twittare battutine sul fatto che è piatta volevo dire NO ALLA DISCRIMINAZIONE. NO AL BULLISMO. ‪#‎RespectForPiatte‬.


6. Virginia Raffaele, perchè ha dato un senso a tutto ciò.

7. Rocco Tanica, perchè mi fa sempre sbudellare dalle risate.

8. Morgan che non riesce a togliersi la giacca, probabilmente il miglior momento del festival in assoluto. Forse anche della televisione italiana.



9. I tweet, che (non prendiamoci in giro) sono sempre la migliore nonché principale nonché forse unica ragione per seguire il festival. Quest’anno la mia personale top 3 dei commentatori in centoquaranta caratteri è stata composta da: @zziagenio78, @esccanada (premio rivelazione Twitter‪ #‎sanremo2016‬) , e @alessioviola .

Detto questo, direi che possiamo finalmente archiviare anche questa kermesse, rimettere sotto naftalina Irene Fornaciari per un altro annetto e DIMENTICARE TUTTO CON UN AMEN. AAAMEN. AAAAAMEEEEEN.