martedì 13 dicembre 2011

Francesco e gli altri.

Nel grande golfo nero dello stadio il pubblico aveva intonato un canto famelico e feroce. 
Silver non capiva le parole in francese, ma sapeva benissimo che cosa voleva quella gente:
 ancora lui, ancora e ancora lui.

(Tim Griggs, “La voce veniva dal fiume”)


“Ci sono ancora biglietti, per stasera. Vuoi andarci?”

Nessuna presunzione di serietà nel punto interrogativo. Non sono una fan di Jovanotti, mia madre lo sa bene. Sorseggio il caffè dietro a una smorfia, la mente ancora in bilico tra immagini oniriche e pagine di un vecchio libro letto la sera prima. Il prezzo in lire marchiato sulla quarta di copertina. Una copertina esteticamente poco affascinante, peraltro. Malinconia di quattro alberi rinsecchiti su caratteri svolazzanti. Eppure, certe cose non cambiano mai.



Anche quel romanzo parla di una rockstar. Di un idolo di masse. Di quella fame insaziabile e mostruosa che ti affonda i piedi nel fango mentre dimentichi la vita, tutta la vita che hai lasciato al di là. I concerti sono una parentesi, quest'è. Una parentesi di assoluta gioia.

Jovanotti, tuttavia, ha delle canzoni buone. Le illuminazioni fulminanti di Mi Fido di Te, troppe volte ricopiate al margine delle mie agende. Bella, e una festicciola delle medie in cui avevo sbagliato il colore dei collant. Il più grande spettacolo dopo il big bang, che prima ancora di Fiorello già avevo reinterpretato dentro un videoclip.



Ne avevamo parlato anche a pranzo, dell'evento previsto ieri sera. Un lungo dibattito sulla recente abitudine di fissare i concerti il Lunedì. Amarezza per i fans più nomadi. Esigenza di circolazione per la non concomitanza di eventi sportivi. E poi il PalaTrieste...Dio, il PalaTrieste è stato cornice del primo vero concerto di massa a cui io abbia mai assistito. Ne ricordo ancora la data : 4 Dicembre 2000.

Dicono che le prime volte non si scordano mai. Eppure, di quella giornata non mi restano che flash. Ricordi spezzettati e distorti, molto meno frequenti dei vuoti. L'identica concatenazione sfocata di un ubriaco che ripensi alla sera prima. Transenne distorte dalla spinta concomitante dei nostri troppi ormoni da ragazzine. Una doccia di birra sui capelli. Puzza d'alcol. L'energumeno che mi solleva da terra per scaraventarmi al di là. Suonavano i LunaPop, la band icona della mia adolescenza. L'evento che più a lungo avevo atteso. Il giorno che per tanto tempo ho continuato indefessa a considerare tra i più belli della mia giovane vita. C'erano tutti, alle mie spalle. Tutti loro. Le persone che da lì a due anni avrei conosciuto, apprezzato e criticato bonariamente in più d'un'occasione. Persone che il destino aveva già incrociato al mio, e che pur tuttavia ancora ignoravo. Un giorno importante, per la me quindicenne che ora non ricorda altro che la maglietta bianca e sudatissima di Cesare, solcata da un fulmine sbarluccicante azzurro. Una mandria di femmine che mi scaraventa a terra per afferrare un pezzo di asciugamano scuro. L'amica che tende una mano per ritirarmi su. La mia risata. Il dolore al sedere che, per più di una settimana, non ha voluto saperne di andar via.

Sì, col PalaTrieste ho un legame affettivo. Ho un legame affettivo coi concerti, soprattutto. Li vivo, ne parlo, ne scrivo, li leggo...da quel lontano giorno di Dicembre – o forse ancora da prima, dal live di Elisa nel teatro della mia città – io della musica dal vivo non ho più saputo fare a meno.


Così un ragazzo muore. Muore lì, nel luogo che una volta ha marcato il mio destino. Muore a diciannove anni, nel tentativo sottopagato di costruire ad altri la felicità. Ne ho conosciuti, di giovani così: facevano quel lavoro per pagarsi le uscite serali, magari per dare una mano con le rette dell'università. Un impiego saltuario, faticoso, poco remunerato. Di quelli che mai e poi mai penseresti che potrebbe rubarti la vita. Certi li ho conosciuti, altri li ho semplicemente visti: a petto nudo, mandidi di sudore, sotto il sole insopportabile dell'estate spagnola. E non vuol essere un'immagine sexy, nient'affatto. E' semplicemente emblema di fatica. Quante volte sono stata lì, a guardarli, distesa al riparo ombroso di una tenda in prestito, convinta che il sacrificio lo stessi facendo io.

Ho saputo di Francesco, e come concertista la mia pelle è ancora solcata da brividi. Di colpo m'é tornata in mente quella frase, quella che Dani pronuncia ad ogni dannato concerto, da anni, sin dagli esordi con El Canto del Loco. Una frase che ho sentito troppe volte perché il mio applauso non risulti mio malgrado meccanico. Una frase che, a conti fatti, non avevo mai apprezzato appieno.

“Grazie”, è questo che dice, “grazie ai ragazzi che hanno montato tutto questo, perchè è anche merito loro se possiamo divertirci questa sera”.

Mi viene in mente, anche, il lungo applauso che una volta abbiamo dedicato a un tizio coi dreadlocks. Mancava poco all'inizio dello show. E lui, imbragato in un'attrezzatura da freeclimber, era stato sollevato da corde sottili fin sulla cima della transenna destra. Elmetto in testa, minuscola pila elettrica in mano. Con poche, agili movenze, aveva adempiuto al suo compito: lisciare una piega che il vento aveva formato sull'ampio stendardo promozionale. Ricordo che, appena aveva toccato terra, qualcuno di noi gli aveva urlato “grazie”. Così, semplicemente. Lui ci aveva guardato stranito, ed io già allora avevo pensato che quel grazie fosse il segno più grande di rispetto e civiltà.

Perché i concerti, ragazzi, sono un'industria. E a volte, persi nell'overdose di sensazioni che riescono a trasmetterci, dimentichiamo quante persone ne facciano parte in realtà. Oggi, beh...per quanto suoni scontato e retorico, oggi io mi sento un po' più vicina a chi nei miei resoconti non appare mai.

Chè ieri sera ho scoperto che tolgono due file, al prossimo concerto cui andrò. Il montaggio, stavolta, sará di poche pretese, perché di pretese ne ha fin troppe storia e estetica del luogo.


Ma la mia “Fila 3” , questo m'han detto, sará in realtà un nuovo vis a vis di pochi metri con Dani Martín, nel giorno del mio onomastico. Finché non saró lá, non saró mai del tutto certa che sia vero. Eppure, immediatamente, mi si é dipinto in volto uno di quei sorrisi idioti che non si scollano piú. Ho pensato a rimmel trasparenti. A come mi vestiró. All'inquadratura perfetta per le foto. E poi, in mezzo a tutto questo, mi é tornato in mente Francesco. Francesco e tutti quelli come lui, a cui dimentichiamo di dir “grazie” ogni volta che tutto va bene.

2 commenti:

  1. mi associo al tuo Grazie!....e grazie anche a te,per saper dire così bene ,cose ed emozioni,che spero siano della maggioranza di noi!
    besos Kit

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  2. Grazie Kit, sempre troppo gentile! :)

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