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domenica 12 aprile 2020

La voce del quartiere

Chissà chi avevano fatto sanguinare, le risate affilate degli adolescenti.
Mi nascondevo da loro quasi senza accorgermene, come per paura che potessero ferirmi di striscio.

Finivo di pranzare dando la schiena alla libreria.
Erano sempre, invariabilmente, le tre.

E chissà dove andavano a finire, le parole lanciate all’aria come baci sul vassoio di uno schermo nero. 


C’era quella donna, per esempio. Parlava sempre con una certa Gema.

Le ruote dei trolley trascinati dai bambini.
Qualcuno piangeva di sonno. Qualcun altro lo sentivi saltellare.

La signora con la voce infilata nell’età sbagliata che ogni mattina parlava sottobraccio con un’anziana della casa di cura. 

L’uomo che mentiva di Guapaaaa all’Antonia, che poi non s’é mai capito cosa accidenti vendeva.
Il tintinnio ritmico di un bastone. La modulazione di un canto flamenco.
C’era tutto un mondo sonoro, là fuori. 


Avevo imparato a riconoscerlo, come l’eclissi artificiale di un sole sulle ruote che mi oscurava il mondo mentre facevo da mangiare.


Ricordo ancora la conversazione all’alba tra due preti che parlavano di donne e tentazioni. Uno di loro ammetteva di aver peccato. L’altro si sentiva in colpa per averci pensato.

Il litigio feroce di quella che credeva che lui avesse un’altra. 
I suoi singhiozzi incontrollati. 

“Mi lasci per quella troia, non é vero? Lo so che ci sei stato a letto!”

L’eterna telenovela di drammi frammentati di cui solo chi vive al piano terra può godere.

Avevo persino pensato di registrarla.
Sarebbe stato un ottimo esercizio di scrittura sperimentale.

Ci avevo provato, a inizio anno.

Intento fallito poco prima che le conversazioni a cui avevo imparato a prestare attenzione contenessero tutte la stessa parola.

Troppo familiare.

Italia.
Italia.
Italia.

Poi, di colpo, il nulla.


Oggi sembra sempre Domenica, nella cornice del mio quadro personale.
Solo che non ci sono le bambine coi fiocchi in testa, i padri di famiglia con le paste, la frusta dei baci scoccati.


Tutt’al piú arriva l’inno di Spagna , un po’ attenuato, a mezzogiorno in punto. E mi fa sempre pensare ai mondiali. O la donna che non conosce l’uso dei guinzaglio e, ogni sera, urla al cane Charlie di tornare


Qualche pomeriggio passa un gitano con la sigaretta in bocca, unico superstite privo di mascherina. E troppe volte ho visto un’ambulanza, andare e venire da una casa in fondo alla via.
Il mondo sonoro del quartiere, oggi, si concentra tutto in una nuova routine.


Alle 19.45 un tizio con un chiaro passato da capo Ultras inizia a sparare musica a tutto volume. 

Regaettón, per lo piú. Poi inizia ad urlare come un pazzo, con tutto il fiato che ha in gola. Si é procurato persino un megafono, per i giorni in cui non ce la fa.

“Affacciatevi alle finestre, forza, diamoci dentro”.

Alle 8, puntuale come un orologio svizzero, quell'uomo a cui ancora non ho associato un volto coordina l’applauso che scende come pioggia sulla via.

É evidente che ormai non é piú solo un rito di ringraziamento per il personale sanitario.

É un bisogno disperato di aggrapparsi al contatto umano; di combattere quel maledetto silenzio che ci impedisce di fingere che questa sia solo una giornata pigra a casa.

E allora partono le urla. Sempre le stesse. Sempre nello stesso ordine. Con le esigenze di reiterazione corale di un qualunque concerto pop.

“Viva los médicos”
“Vivaaaa"
“Viva los miltares”
“Vivaaaa”
“Viva Málaga”
“Vivaaaa”
“Viva España”
“Vivaaaa” 
"Viva los médicos de Málaga"
"Vivaaaa"
"Viva los médicos de España"
"Vivaaaa"

“Viva los vecinooosss”
"Vivaaaa"

Ogni giorno dura un minuto in piú. 

La Croce Rossa passa a pavoneggiarsi, facendo partire un solo colpo di sirena in segno di saluto.


Immediatamente dopo, qualcuno intona una canzoncina per bambini.

“Hola Don Pepito”
“Hola Don José”, rispondono dagli altri balconi.
“Adiós Don Pepito”
“Adiós Don José”


É il segnale in codice che indica il momento di rientrare.
Cosí innocente che, giuro, mi dá fastidio.

Da una finestra all’altra ci si scambiano i saluti, ci si chiede come si sta.
"A domani"
Poi le persiane si chiudono e il quartiere torna a spegnersi. 

Privato della sua voce.
Derubato della sua identitá. 
Immagine: Pinterest.it









C'era una volta - Frammenti sparsi di conversazione captati fuori dalla mia finestra tra Gennaio e Febbraio 2020: 


¿Qué calorcito hoy, no? 

A ella le gusta mucho la Misericordia 

Es cuestión de sentarnos a ver. 

¿Pero te gustaría? Dime. 

NToniaaaaaa ... ¡qué guapa! 

Se llama Pablo y es homosexual 

¡Ntoniaaa Adiós! 

Perdón si te he ofendido. 

Y ¿qué te ha dicho, qué te ha dicho? 

(Llorando) era la que yo quería 


Esta mañana me llama la encargada.. cucha, Gema, es que hoy se me ha ido el autobús 


Si hay cosas más de chica... como de princesa, y eso 



- Pero esta semana no ha sido, fue la semana pasá 


- Es que no me acuerdo bien 


- Yaaa, por eso, fue la semana pasá 



Tenemos que ir al Mercadona 


Venga, esta tarde/noche hablamos 




- ¡Felicidadesss! 


- Ay, ¡muchas gracias! 
- ¿Cuántos son? 


- Un año más vieja 




Gema, quedamos a las 5 mejor. 



Adiós ¡capitán! ¿Dónde llevas la pistola? 



Nos tomamos una cervecita... ¿qué más queremos?

Por lo menos nos vemos en estos contextos festivos 



- Uyyyy, hermano, hoy me he enterado de una cosa... 


- De qué cosa, ¿mariposa? 


Es que estoy fatal, es que no me encuentro bien 






domenica 7 gennaio 2018

...Che tutte le feste porta via.

Baratri improvvisi di malinconia allo zabaione. Ricordi freschi di luci. Di edifici capovolti in un riflesso. E ponti. E bifore. E poi nebbia che, fuori da questo treno, mi cancella di bianco il mondo sopra la laguna. Vorrei passarci il phon, come faccio sullo specchio per mandare via il vapore. Vorrei farlo, più che altro, con il mio futuro. 



Si sa che la fine delle feste apre le porte ad una fase nuova della vita. É così da sempre. Tradizione, come la Befana. Immagino lo si debba semplicemente accettare. Peccato che io l'abbia sempre odiata, 'sta inutile vecchiaccia tetra. Voglio dire, come puoi appassionarti a un personaggio così scuro e lugubre? Brutto come le battute che non fanno più ridere nessuno dal millenovecentocinquantuno. Un personaggio che, se proprio decreta che sei stato bravo, ti porta tutt'al più una calza piena di zuccheri. Capirai che ricompensa. Uhhh, come sei magnanima, Befana, grazie. Come se non avessi mangiato il mondo dal ventiquattro Dicembre ad oggi. Come se già non fossi sul punto di esplodere. Ma cosa vuoi, precisamente? Che ci cadano i denti a suon di carie? Che ci vengano i brufoli? Dì la verità, che ci esigi tutte un po' più simili a te. E poi i falò. I petardi. I riti ancestrali che sanno di medioevo. Che diamine, vuoi mettere con la gioia dei Re Magi? I colori delle cavalcate viste in diretta streaming, con la luce di Málaga in ritardo di due ore sul tramonto, la musica, i balli, e l'immancabile supereroe locale con l'ombrello aperto al contrario per raccogliere più caramelle possibili? 
Se proprio devi dire addio a qualcosa fallo festeggiando. Alla spagnola. Invece no. Tu, coi tuoi vestiti neri e il naso aguzzo, rendi sempre tutto più difficile che mai. Fanculo, Befana. Fanculo sul serio, col tuo lutto sotto alla scopa.

E devi averlo sentito che ti respingo, perchè quest'anno nella calza m'hai messo il malumore del ciclo e un altro po' d'incertezza in più. 

Venezia è sempre Venezia. E' così che t'ho ignorata, come si fa con i nemici e gli ex. Solo che il saliscendi di emozioni contenute mi ha spossata. E adesso qui, sul regionale del ritorno, trattengo il fiato per il tempo di un countdown. 




Vorrei solo che la tranquillità della Domenica durasse un po' di più. Vorrei concedermi il lusso di un piantino sul letto. Vorrei - caspita, tantissimo! - un nuovo disco solista di Brandon Flowers. O forse solo non pensare più.

Invece tutto è finito. Sù il sipario e si ritorna alla routine. Che forse sarà un po' più faticosa, e complicata. Perchè come sempre, in fondo, non ho la più pallida idea di cosa mi riserverà il domani. Ma poi penso alle ricette che richiedono un forno, alle cene tra amici, ai libri da comprare, ai saldi di Zara.

Perchè sì: è nelle piccole cose la felicità.
E, al di là di tutta la fatica dei ritorni, so con assoluta certezza che mi sta ancora aspettando laggiù.

sabato 22 luglio 2017

Le parole non scritte.

Morirò soffocata dalle parole non scritte. Quelle che potevano -e dovevano- diventare post. 
Vi giuro che mi sembra di sentirle gorgogliarmi dentro. Aumentano, come una marea vischiosa che si appropri a poco a poco del mio interno litorale. 

Non sarò mai in grado di usarle per spiegarvi quanto male faccia. 

É come una massa di catarro nel petto. Come la nausea non espressa in vomito. Qualcosa di schifoso eppure estremamente umano. Ecco, un attacco di diarrea quando sei lontana dal bagno. Ché almeno se direte che "scrivo di merda" potrò darvi una valida ragione. 

Tutti indagati, tutti colpevoli. Il vento caldo di Terral, i voli aerei, le luci di un palco: sono loro che hanno ucciso le parole. Quelle che, per vendetta, adesso uccideranno me. Perchè qui è il solito caos di immagini confuse. E notti senza sonno. E divorare la vita a grandi morsi senza fermarsi un attimo a sentirne il sapore. 

Un giorno è un anno, un anno è un giorno. E ormai vivo di flussi di coscienza, nell'attesa spasmodica di trovare un momento per attivare il mese di prova su Netflix. 

Non li ho comprati, poi, quei fiori. 

Però odora di tiglio, ogni mia notte. Appiccicata di sudore sulle cosce; anestetizzata dai bicchieroni di tinto de verano che trangugio come acqua, e so che non dovrei. Chissà, magari un giorno riuscirò a raccontare.

E allora vi dirò della fiera d'arte. Delle montagne del Trentino. Del vento che spettina i capelli su un traghetto. Di come sono passata dal concerto degli Imagine Dragons a quello di Franco Battiato riuscendo ad amarli entrambi. Perché la musica, anche nelle differenze, è solo una delle tante forme che diamo alla magia. 

Le percussioni, come previsto, rimbalzavano sui secoli di storia dell'Arena di Verona. Laser verdi. Il matto che fa irruzione sul palco e la paura di un secondo appena. La consapevolezza lucida di quanto sia terribile, seppure un solo istante, sentire la paura farsi spazio tra la gioia. Welcome to the new age. C'era la gente che ballava, però, lo stesso. La Via Lattea negli spalti, stelle moderne formato smartphone. Maria, quasi fatico a ricordarne il volto. La stima di chi attraversa un Paese in pullman, seduta su un sedile scomodo, pur di andare ad un concerto anche da sola. 





E poi, due aeroporti dopo, l'odore inconfondibile che ha la sabbia nelle Plazas de Toros. Un po' di selvaggio, tanto di suggestione. Quanto sono belle le Plazas de Toros, comunque, quando nessun animale ci viene torturato in mezzo. E al posto di quei tori ci siamo noi, che invece delle banderillas ci facciamo infilzare nelle orecchie cucuruccucù paloma. Giro della capote, incornata di cori su Voglio Vederti Danzare. Noi, drogati dal delicato romanticismo de La Cura, sorpresi da una mossa ardita nella scoperta tardiva di "fornicazione". "Ma questo parla sempre così? Cioè, si mangia i vocabolari?". Per un attimo, senza soluzione di continuità, mi viene in mente Il Cile. E Angela. E Rebecca. E tra tutti gli scenari, chissà poi perchè, la presentazione di un libro a Cremona.



Massì. Un giorno vi spiegherò cosa mi è passato per la mente, quando stremata dall'umidità ho impugnato le forbici alle otto del mattino. E con gli occhi ancora appannati di sonno, senza occhiali, in un solo gesto rabbioso, ho massacrato la mia frangia per un senso di asimetrica - ma se non altro piastrabile - libertà. Vi racconterò di quando sono uscita nel deserto post-nebbia di un Sabato mattina, constatando che sarebbe stato divertente potermi registrare i pensieri. Perchè riflettevo contemporaneamente sul gruppo whatsapp coi riferimenti epici, sulla voglia che m'ha messo di scrivere un altro libro, sull'inquietante bruttezza di un murales sulla destra, su quanto ha ragione la pubblicità della Red Bull ("para días largos y noches aún más largas"), sulla campagna marketing dell'Unicaja in calle Larios, su cosa comprare al mercato, sul sogno assurdo fatto la notte prima in cui mio nonno comprava un fucile a pallettoni, su un tizio su Twitter che sembra la mia fotocopia al maschile. E il mondo che mi urlava nel cervello é andato a pezzi nello squillo di un cellulare. 

Forse riuscirò a parlarvi anche della famiglia americana. Perchè, dai: con tutto il mondo a disposizione, quante probabilità c'erano che mi toccasse far fare un food tour proprio a delle persone che vivono nella Silicon Valley? "Scrivici se vuoi venire, che ti diamo tutte le informazioni". Ed è subito cartolina di me con lo sfondo del Golden Gate. Perchè, come ha detto qualcuno: "Che sia il rock, che siano gli hippie o che sia la tecnologia, abbiamo tutti un motivo per andare a San Francisco".

Già, ma chi l'ha detto, poi? Ah, sì. Era quel tizio con la barba conosciuto all'Artsenal. Quello che dimostrava più anni e sembrava capirmi alla perfezione. Ché "quando ti abitui a viaggiare ti metti nei panni degli altri, e allora sei più incline ad aiutare". E infatti ho regalato una bottiglietta d'acqua a una signora che viveva per strada nell'inferno del Luglio andaluso. Ho dato qualche moneta per aiutare i bimbi poveri. Mi sono fatta dei lunghissimi monologhi mentali sul paradossale egoismo insito nell'altruismo, dato che in entrambi i casi a sentirmi meglio sono stata soprattutto io.

Come all'inaugurazione di Alessia, in effetti.  Perchè è stato bello darle un contatto e vedere che è riuscita a trasformarlo in qualcosa. Le sue foto, poco prima che se ne vada, fanno bella mostra di sé su una parete mentre qualche passante ci identifica subito la metro di Napoli. E il danese che parla delle tasse. E le patate con eccesso di salse. Discutere in tre lingue diverse, mischiarle tutte assieme, sentirsi una di mondo mentre dentro in realtà ti identifichi nella signora che si lancia sulla pista credendo di ballare il tango. Sola. Del tutto fuori luogo. Con un ritmo proprio. Eppure incredibilmente felice.
Un post condiviso da Ilaria (@ilaria_luna84) in data:



Potrei dirvi anche, se la nostalgia non vi disturba, che sono fatta per i quartieri marinai. L'ho capito una volta di più alla festa per la Virgen Del Carmen, nella spiaggia di Pedregalejos con le barche già addobbate, i festoni tra le case bianche, e le ragazze con i drappi rossi tra i camion delle tv. Il rumore ritmico delle processioni arrivava in lontananza, intervallato da scoppi di petardi, mentre l'odore dell'incenso si mischiava a quello degli espetos in una miscela che era in sé Málaga intera.







E io questo voglio, respirare il mare. Aprire la finestra e vederlo. Percepirlo. Avere l
a possibilità di scendere cinque minuti a passeggiarci accanto, parlare con i pescatori, sentire la sabbia dentro al mio modo d'essere - così come riuscivo ad avvertirla a Huelin. 

Io tornerò lì, prima o poi. Io DEVO. Ché, come dice Laura, "ognuno, in questa città, ha un posto in cui è un po' più felice". E dopo anni a cercare il centro, io ho capito che è sulla costa Ovest. O Est, è uguale. Però sia costa. E non la costa turistica della Malagueta, col suo miscuglio di accenti e i croceristi in truppa; No: la costa autentica, con le famiglie accampate sotto i gazebo, il cibo per un reggimento, i negozi di quartiere.

Ho aperto Idealista, di nuovo, il giorno della Virgen Del Carmen. Eppure dicono che la mia casa "è accogliente". Dicono che mi rispecchia. Dicono che la mia casa è come me. Piango alla sola idea di un altro trasloco, ma ho bisogno del mare. Mi è entrato dentro. Io voglio il mare. 

Calma. Chè qui si esagerano anche le sensazioni. Tipo l'altro giorno che, tornando da flamenco, avrei solo voluto singhiozzare a squarciagola. Chi me l'avrà mai fatto fare, di dare la mia disponibilità a ballare al saggio? É tra meno di una settimana, e se non l'ho detto a nessuno é perché sono un completo disastro. Dico sul serio. Continuo a sbagliare la coreografia, non mi sento sicura di niente. Il cuore mi si stringe in un pugno di panico alla sola idea di uscire dalle quinte. Vorrei scappare urlando. Cambiare scuola. Pianeta. Galassia. Sotterrarmi. Che ne so. Con quest'ansia non é neanche divertente. Per la prima volta non vedo l'ora che le lezioni finiscano. Che basta. Che forse ad Agosto potrò dormire, e scrivere, e mettermi Netflix. 

Ma poi mi viene in mente che ad Agosto c'è la Feria e mi riscopro a ridere da sola.

Prima o poi (o forse mai) vi racconterò delle cene in casa, dei sottofondi di chitarre, delle salse piccanti e dei divani comodi. Del rock del ZZ Pub, dei tizi che si dimenano come tarantolati, di quello che raccontava barzellette alle tre del mattino, e io crollavo dal sonno cercando di ridere per dargli qualche soddisfazione. 

"Mi sento come se dovessi vivere ogni attimo fino in fondo, perchè chissà dove sarò domani". 

Non esiste scrittura senza vita. Però, oh, anche  cercare di averle entrambe è un lavoro duro. 
















martedì 20 dicembre 2016

La strada del ritorno.

Avvertenza: questo post è stato scritto a fasi alterne tra il 18 e 19 Dicembre.

Un video pubblicato da Ilaria (@ilaria_luna84) in data:





“La strada del ritorno è sempre più corta”, dice la copertina del mio libro. L’avevo comprato per il titolo, appena pochi giorni prima di partire. 
C’è un che di rotondamente perfetto nel finirlo adesso, sul sedile 08F - posto finestrino - del solito volo Ryan Air. 
Piango i piantini discreti dei finali tristi, mentre la testa bionda del tizio accanto a me si arrende alla gravità nel sonno. Rapido fruscio nella borsa in tela, dove lo scambio senza troppo scalpore con due madeleine portate via dalla dispensa. Erano tutto ciò che restava delle provviste andaluse e, a questo punto, mi sembra giusto così. Le altre le ho fatte fuori ieri sera, con l'aiuto di due amiche, nel corso di una cena improvvisata a casa mia. Pioveva il mondo, oltre all'albero 100% plastica comprato per tre euro dai cinesi.

Nell'estrarle lo sguardo mi cade per un attimo sul nuovo braccialetto con sù scritto boquerona. Un istante. una vita. Un groviglio di pensieri. E dire che a Settembre sembrava un'idea così vaga il Natale...!







“No te preocupes”, intimava il proprietario al telefono prima, al Terminal 2. E invece, visto il tipo, mi preoccupo eccome. Perchè Málaga, questa mattina, sembrava fare di tutto pur di non lasciarmi partire. 


Il frigo sbrinato che allaga il salotto. La suola delle Converse umide di pioggia che si strappa in un crack mentre le indosso. La maniglia della lavatrice che, rompendosi, imprigiona al suo interno i panni lavati. Adesso, però, scelgo di non pensarci. Ctrl+c alla puzza cadaverica che potrebbe attendermi a Gennaio. Alle possibili recriminazioni di un chiodo di troppo piantato nel muro. Alla visita autorizzata di estranei in un nido arancio-rosso che sono riuscita a fare mio.

Perchè adesso, fuori dal finestrino, una fascia di tramonto si posa tra due orizzonti in bilico: da una parte c'è la voglia di famiglia e di relax; Dall'altra il peso del distacco di una vita che mi sembra di aver appena iniziato a far girare. Mentre tutto mi scivola addosso capisco che d'ora in poi sarà questa, la bipolarità a cui mi sono condannata. Che questo punto sospeso nel nulla, in mezzo ai cieli tra Sud Ovest e Nord Est, sarà probabilmente il solo luogo dove incrocerò due identità.



E non lo so, se la strada del ritorno sia davvero più corta.
So che di quel libro, in questi mesi, non ero riuscita a leggere che poche pagine; Che il tempo da dedicarci è rimasto schiacciato in un'autentica centrifuga di volti e situazioni.

L'aereo prosegue la sua rotta, lasciandoseli dietro in una scia mentale. 

La inseguo senza fretta. A sobbalzi e singhiozzi ed indugi.

Le despedidas Pre-Natalizie. Il regaettón in discoteca. L'inferno di Calle Larios alle sei e mezza di sera. E ancora i concerti, il mimo di Hemingway, le tante serate di scambi linguistici. Le chiacchierate con i pescatori mentre scendo a cercare conchiglie in spiaggia, sei ore scarse di sonno, il galà di Los 40 in Tv col tinto de verano, non dormire mai prima delle due. Poi le campane del Mercoledì, le voci invadenti dei vicini, fare progetti con Grace sui posti da visitare. Rivedo la scuola di flamenco, con le sedie verdi posate sui muri di azulejos, la frangia che non sta in piega, le nacchere poco usate, la sera umida di quando sono rimasta chiusa fuori. La mattina della degustazione di prosciutti, la voce di chi dice che entro in connessione con le persone, la signora che due volte alla settimana, alla fermata, mi chiede se l'1 sia già passato. 

Penso a come sia inspiegabilmente (e meravigliosamente!) assurdo che attorno ad un tavolo, dal niente, si aggiunga ogni weekend un volto nuovo. E "come vi conoscete?" e "amici degli amici", e innamorarsi sull'autobus di ragazzi con gli occhi azzurrissimi che alla fermata dopo avrai dimenticato.
Ricordo la difficoltà di cercare casa. Le crisi nervose quando niente sembrava andare per il verso giusto. E poi le offerte di lavoro. I pomeriggi all'Ikea. Gli spazi gravidi d'arte e di mare in cui andare per calmare lo spirito.


I mercatini di Natale al Muelle Uno. Le volte che non ho visto una serie. Le volte in cui sono stata fiera di me.

Una foto pubblicata da Ilaria (@ilaria_luna84) in data:


Poi, un lunedì mattina, mi sveglio nella stanza in cui sono cresciuta. Le pelle rilassata da un sonno profondissimo. La mano che si allunga in un gesto automatico verso il comodino. D'improvviso mi sembra di non essere mai andata via. Tutti quei ricordi sono poco più di un lungo, strano, sogno fatto a oltre duemila kilometri da qui. Un sogno che riprenderò a Gennaio. Là, in un'altra vita. Nella dimensione parallela in cui shakero tre lingue e bevo pochi caffè. Dove i cieli non s'imbiancano nemmeno quando il buio ha fretta. E tutto manca, e nulla manca, insieme come e all'opposto di qui. 




venerdì 23 settembre 2016

Prima notte d'autunno

NB: Questo post è stato scritto alle due di notte, giusto per smentire l'ultimo paragrafo.



Bridget Jones è sempre Bridget Jones. C'è un po' di lei nei pop corn che sono riuscita a sparpagliare ovunque, persino dentro alle tasche dei Jeans. Avevo messo quelli di Desigual un po' spiegazzati, abbinati alla bell'e meglio con una camicia vecchia, rosa, pescata dal fondo dell'armadio. 

Ormai è una settimana che mi concio come una disagiata: i vestiti migliori sono già tutti in valigia, assiderati nei sacchetti sottovuoto, e devo fare sfoggio di tutte le mie doti creative per dare vita ad abbinamenti vagamente accettabili dalla società. Anche in questo c'è un po' di Bridget Jones. Anche in un Giovedì che sembra Sabato, e la notte è un tripudio di stelle, e la Luna sembra uno spicchio di limone in un'immagine un po' troppo smielata anche per me. 
Bridget Jones, tra le risate, mi consola. Mi fa pensare che le imperfezioni rendano umane, non inette. Simpatiche, non sbadate. Bridget Jones è la speranza adolescente che un giorno, nonostante tutti i miei indicibili casini, salti fuori un Darcy anche per me. 

Ma intanto guardo Trieste, con le cassette della posta che sembrano faccine stupite, i bar arredati con cura impeccabile, la striscia rossa che dà fuoco al cielo nel punto esatto in cui confina col mare. La vedo bella come mai prima. Ne ammiro i dettagli con gli occhi di un moribondo ai suoi ultimi giorni di vita. Perchè in un certo senso è un po' così: questa è già la mia vecchia vita. 
Se ci penso mi sembra di avere davanti un foglio bianco su cui non ho ancora capito come dovrei dipingermi il futuro. A volte riesco a visualizzarlo, nei colori brillanti del successo personale. Nuove amicizie, economie più stabili. Altre è tutto così terribilmente confuso che vorrei soltanto starmene sdraiata sul mio letto a chiamare la mamma mentre abbraccio un orsetto di peluche. 



Quest'estate, mentre avanzavo nell'acqua bassa, pensavo spesso che trasferirsi all'estero fosse un po' come decidersi a tuffarsi anche se la temperatura sembra fredda. C'è un istante, prima che il tuo corpo vi si immerga, in cui pensi che non avresti dovuto. Ma ormai è tardi, sai che toccherai quell'acqua, e a meno che tu non ti ferma, a meno che tu non la smetta di nuotare, in quell'acqua alla fine starai bene. 
Il rumore dei miei schizzi l'ho sentito qualche giorno fa. Aveva la forma di uno scatolone enorme con le coperte e i vestiti invernali arrivato sano e salvo in un salotto di Torremolinos. Lo stesso giorno una sconosciuta, dopo un bizzarro terzo grado digitale, mi dava appuntamento a Lunedì per vedere la prima casa. Un'agenzia immobiliare parlava di loft in centro. E c'erano numeri, informazioni pratiche, responsi che sedavano in parte tutta questa profonda agitazione. 

Dani Martín, persino lui, ci mette del proprio. Lunedì sarà all'Hormiguero - leggo- Martedì da Buenafuente, e penso che la Spagna abbia uno strano modo di darmi il bentornato. Che un Paese intero, camuffato da promozione discografica, stia cercando di farmi sentire a casa rievocando l'universo del 2008. Un mondo che, però, oramai sento mio in modo solo parziale. Forse dovrei ascoltarlo adesso, quel disco. Mettermi le cuffie e togliermi il pensiero. Piantino, catarsi, via. In fondo con Dani ho condiviso un countdown, la voce rotta, la tensione. In fondo ho ascoltato París per tre volte di fila, un pomeriggio che non sapevo di essere nervosa. L'ho ascoltata senza riuscire a fermarmi, nonostante il Jingle di Cadena Dial l'interrompesse nel mezzo. L'ho divorata in modo compulsivo ricavandone lo stesso tipo di conforto che ti dà una fetta di pane con burro e marmellata. Lo stesso tipo di conforto, solo molto più forte, che mi ha dato a conti fatti Bridget Jones. 

Ho bisogno di ancora un po' di tempo. Solo un altro po'. Perchè premere play sarà in un certo senso già salire sull'aereo. 

E intanto, negli ultimi giorni, ho ripreso a dormire di un sonno pesante. Come una bambina che ha soltanto cose belle da sognare. E in fondo so che non c'entrano niente i cicchetti di vino, la stanchezza fisica o il cervello iperattivo: è solo che ormai non si torna più indietro. Le preoccupazioni le ho esaurite tutte. Splash.

E adesso sì, credo di essere davvero pronta a partire. 


venerdì 10 giugno 2016

Euro-Flamenco 2016: La Roja Baila, e anch'io.


Certo che non sembra la sera prima dello spettacolo. 
Anzi, a dire il vero non sembra proprio niente. Giusto un ammasso di pensieri, tutti lasciati a metà. 
Una rosa. Una scarpa. Una spilla da balia. 
Duemila post da scrivere e, come sottofondo, il primo match degli europei. 

Per l'occasione ho ritirato fuori un vecchio portachiavi con la Tour Eiffel. Sempre sul pezzo, ca vans a dire. Ci ho messo sotto un quadratino di carta trasformato in bandiera dai pennarelli rossi e blu che tengo in un astuccio da più o meno una vita. Li tiro fuori giusto giusto a Natale, quando si tratta di dar forma a qualche bizzarria creativa. In questo caso, però, capirete che serviva un centrotavola a tema. 

Notifica di Whatsapp. Il cellulare che si agita sul tavolo. Nel gruppo del corso di flamenco si decreta all'unanimità il mood della vigilia: "portate la vodka". Stordimento come unica soluzione. E poi Preparativi. Smalto. Locandine. Io che allineo parole sull'equivalente digitale di un foglio bianco. Così, senza rileggere. Tanto per allentare la tensione.

Ok, mi arrendo. Alla fine è proprio la sera prima del saggio. All'ennesima potenza. Forse addirittura più solenne del solito.
Ma c'è uno che si chiama Stancu, stando alla telecronaca in tivù. Mi fa sorridere. E allora torniamo agli Europei.

Il buon vecchio Emanuele, sul suo blog, parlava delle canzoni ufficiali delle varie Nazionali. L'ho appreso da lui, che quella della Spagna sarebbe stata svelata oggi. Quindi ho cliccato sul link. Mi sono memorizzata il canale youtube. Ho aspettato. Aggiornato. Premuto play. Micro-secondi di fiato trattenuto. Suspance. Ta-daaaan.


E niente, ragazzi,  questi sembrano tutti ubriachi. Ma pesanti, eh. "Por la Roja Moriré", o "Siam pronti alla morte", "Soy Español", o "L'Italia chiamò". Poi, uno scroscio di lalalalala stile pittbull/Shakira/tormentone-estivo-a-caso. In sostanza, lo spirito di un popolo che si esprime in miscugli di cazzeggio, orgoglio ed allegria. Solo che, purtroppo, questa volta non gli riesce troppo bene. 




Quindi mi dispiace, chicos: il pezzo di Carboni eletto a sigla da Sky Sport non mi convince per niente, ma almeno in quanto a musica quest'anno mi sa che abbiamo comunque vinto noi.

PS: se domani vi capitasse di passare per Udine, venite a vedermi (e a vederci, e a vedere La Toromba, soprattutto) qui. I superalcolici sono graditi.

Adióh.





giovedì 7 aprile 2016

Un giorno, tre canzoni.

Si può riassumere una giornata con una foto. Lo si può fare con un hashtag.
Figurati se non puoi tratteggiarne un ritratto accurato in tre canzoni.

Quindi oggi è andata così.

1. Conchita- Puede Ser



Il ritornello che mi ronza in testa appena sveglia. Strascichi di ottimismo della lezione di flamenco. La conversazione con una sconosciuta. La consapevolezza improvvisa di quelle coincidenze che mi piace a vario titolo chiamare segnali.
"Quand'era?"
"Nel duemilao...duemilaotto".
Nella pausa un respiro, un ricordo, un aereo che decolla.
L'immagine di me al centro di una stanza vuota. Parma. Gli scatoloni.
Di me a pochi metri da lì. Davanti a un'altra sconosciuta, per la stessa ragione.
Paure sciolte in lacrime in un piatto di tortellini.
E, nello stereo (nell'iPod!), quella stessa, identica canzone.

2. The Strumbellas - Spirits



Hanno anche un bel nome, a palleggiarlo sul palato. The Strumbellas. Sa di burla e piroette, chissà poi perchè. Spirits è stata amore al primo ascolto. Spiriti come Demoni: sound simile, stesso impatto fatale.

"La più bella canzone che passa in radio ultimamente".
E c'è chi, sui social, mi dà ragione.
"Ascoltati anche le robe vecchie", dice.
Momento di raro impulso. Curiosità. Cieca fiducia. Play. Partenza per un viaggio di suoni altri. Di deserti e strade dritte. Di metropoli e casini. Di mare aperto, e sogni, ed un sorriso sulle labbra che si apre, piano piano, sempre più.

Grazie, Andrea. Avevi ragione, e non esistono parole per esprimere quanto. Scoprire dischi belli è - assieme, forse, alla cioccolata fondente - la mia personale ricetta per la felicità.

3. The Killers - Jenny Was a Friend Of Mine





Dan Reyolds degli Imagine Dragons che canta con Brandon Flowers dei The Killers. La collisione delle mie playlist su di uno stesso palco, giù, a Las Vegas. Come se Cremonini collaborasse DAVVERO con Dani Martín. Come se Il Cile duettasse con El Pescao. Chessò, se Leiva si incontrasse con i Sunset Sons. Questo era molto più probabile, d'accordo. Però, nella ricerca compulsiva di video, c'è la stessa esagerata frenesia. 

Non ne trovo, ovviamente. Trenta secondi al massimo, sfocati, su Tumblr. Epperò scopro la canzone. Un'altra. Ché, benedetta ignoranza, Jenny was a friend of mine non l'avevo mica mai sentita prima.

Sa di punto e a capo. Di fine giornata. Di scrivere tanto per scrivere, tanto per stare bene, anche se quello che hai da dire non importerà (o non lo capirà!) nessuno. Che poi è esattamente quello che cerco, e trovo, nella musica che amo. Nonchè la ragione - soprattutto-  per cui esiste, adesso, questo post.

sabato 7 novembre 2015

Ritrovarsi.

Il mare era calmo. Il giorno di Sant Jordi, lo ricordo bene. 

Ho aspettato qualche istante prima di rispondere. Come se volessi lasciare che la domanda gettasse le radici in me. Poi, impercettibilmente, ho sorriso.


La felicità è un concetto mobile. Si nutre di aria e spostamenti. Vive nelle facce degli amici. Nelle consistenze degli abbracci. La felicità - per quanto suoni banale - ha il suono rotondo di risate e voci. Ed io, ultimamente, l'ho trovata solo quando ho spento il cellulare. 

Tipo il Mercoledì sera, a lezione di flamenco. Con il rumore sordo dei tacchi sul pavimento a demolirmi l'angoscia in quattro tempi. Quest'angoscia inspiegabile, fastidiosissima, che mi perseguita da un po'.

Chiamala inquietudine. Chiamala, non so, forse un po' voglia di cambiare vita. 


La mattina mi svegliava un senso di oppressione al petto. Giornate tutte uguali. Stessa stanza. Stesso computer. E mi tornava sempre in mente quel giorno, sulla spiaggia della Barceloneta. Il giorno di Sant Jordi, lo ricordo bene.


Non importa quale fosse la domanda. Ero nel bel mezzo del mio Erasmus. In visita ad amici al Nord con il pretesto di un concerto. 

"Ma in fondo, scusa, chi se ne frega?", avevo risposto. "É il passato. É tutt'un altra, lontanissima, vita". 


E non importa se poi, tornando, potesse ricadermi tutto addosso come macerie di una casa abbandonata. Rivolevo quella sensazione, punto e basta. Mi mancava la percezione netta di aver tracciato una linea di confine tra due mondi. L'espressione massima della libertà. 


Magari è solo troppo tempo che non viaggio più. 

In ogni caso, crescere è difficile. É difficile affrontare il confronto tra quella che sei diventata e quella che avresti voluto diventare. 


Ogni volta che me ne rendevo conto, inevitabilmente, i ricordi mi trascinavano indietro fino al primo giorno del primo anno di Università a Trieste. A quando camminavo sul marciapiedi diretta all'aula, ignara e curiosa di ciò che mi aspettava.

"Sei anche tu di Scienze della Comunicazione?", mi aveva chiesto una ragazza mora. Non l'ho più vista, credo si chiamasse Serena. Avevamo iniziato a chiacchierare. Ed io, nel frattempo, mi descrivevo la situazione nella testa, come se dovessi restituirla ai lettori di un immaginario libro. 


Lo facevo sempre. Non sapevo se fosse una maledizione o un dono, ma sapevo guardare gli episodi dall'esterno. Ero in grado di trovare storie anche nei dettagli più insignificanti della quotidianità. L'ennesima cosa che adesso mi mancava. 

Almeno fino a quando ho varcato quel ponte, Giovedì scorso, seduta al posto del passeggero in una macchina non mia. La nebbia si alzava dal basso regalando uno scenario spettrale. Di là, silenzio e buio. Campagna. Sembrava non esserci altro. Sembrava la scena di un film del terrore.

Ovviamente non è questo, il ponte. Però era suggestivo.


Invece, di altro, ce n'era moltissimo. Perchè mi aspettava, al di là di quel ponte, una serata di quelle da ricordare. Un compleanno. Una stanza addobbata. Un'amica che non rivedevo da troppi anni. Un insieme di persone con cui condivido quella passione del Mercoledì, e che è bello conoscere ogni giorno un po' di più. 

Quella sera, sulle note di un'inedita versione di "tanti auguri a te" suonata live, le mie due maestre di flamenco hanno ballato le sevillanas assieme. Per me è stato come se due mondi si fossero ricongiunti. Se il passato e il presente si fossero uniti a dare un filo conduttore alla mia storia. Quella che forse, senza accorgermene, stavo piano piano riprendendo a narrare. 

Ho dormito, poi. Ho dormito bene come non facevo da settimane. 

Poi ho vomitato questo post su un foglio di carta, come facevo ai tempi dell'università. Un post che chissenefrega se non parla strettamente di Spagna. Se è un po' sconnesso. Se non è magari del tutto comprensibile a molti. Un post che chissenefrega se non avrà visite o condivisioni sui social. Un post che parla di me. Soltanto questo. Della me che sto disperatamente cercando di recuperare. 

Forse non l'ho ancora del tutto capito, cosa voglio fare "da grande". 


So, però, che voglio essere quella ragazza che Giovedì scorso rideva ad una festa di compleanno al di là di un ponte nebbioso. Non quella che più di due settimane piange ogni giorno quando nessuno la vede. 


Ecco, volevo dirvi che forse l'ho ritrovata. Che forse sta tornando.
Volevo dirvi che la felicità è un concetto mobile, ed è anche l'unica cosa che sa rendermi produttiva.
Per favore, aiutatemi a non perderla più. 



lunedì 12 ottobre 2015

Riemergere da un weekend nel Día de la Hispanidad.


Da certi weekend capita anche che ci riemergi. A fatica, come se sgambettassi dai fondali più profondi, con migliaia di ricordi a zavorrarti i piedi. Non è piacevole. Ci stavi bene, sott'acqua. O, fuor di metafora, nel caldo del tuo letto, la mattina di un Lunedì che arriva troppo in fretta. Ti piomba addosso, col ronzio del tosaerba a dividerti in due la fase Rem. Prima della sveglia. Prima della comprensione. 

L'aria, suppongo. Qualcosa di simile. In cucina un paio di biscotti al cocco, un messaggio vocale sul cellulare. E sei più stanca di quanto tu ricordi di essere mai stata. Dovrebbe essere previsto un weekend per riprendersi dai weekend. Dovrebbe essere almeno proibito che sfocino in un cielo grigio. Covi pensieri funesti. Tipo che il tuo ideale di vita dovrebbe essere sposare un milionario e farti mantenere. O collaudare materassi, che ne so. Ti viene in mente che oggi è il Día de La Hispanidad. Per qualche motivo, lo trovi di buon auspicio. Prima, però, fatemi dormire. 

E poi, sotto la doccia, é tutto un ritornare. Sono immagini sconnesse. Foto in auto-proiezione. Ci sono le pareti colorate del bar in cui hai presentato il libro. La foto di Hemingway sopra la tua testa. L'installazione con le meduse di quel nuovo negozietto di design che inauguravano a Trieste. 




Ci sono i nuovi jeans di Desigual, comprati sfidando la bora a 130, col sacchetto che ti fa da vela. "I hope you know how beautiful you are", c'è scritto all'interno. La cena per due persone vinta al Casinó - io che non vinco quasi mai niente. I budini della Cameo gratis davanti al tramonto più bello di sempre. Un pullman costato 2 euro. Enrique Iglesias sparato a manetta. Rebecca che ti dice "io quasi quasi mi trasferisco". Renzo e Lucia che, più che Twitter, userebbero Whatsapp. C'é una ragazza del Venezuela che ti dice di non aver mai visto tanto talento come in Italia. "Sí, peccato che non ci diano spazio per esprimerlo", ribattevi in modo quasi meccanico. E lei insisteva che no, che sono tutte balle. "Siete voi stessi a frenarvi, perchè siete troppo legati a quello che la gente potrebbe dire o pensare". Dio solo sa quanto avesse ragione. E poi un altro sorso. E poi vorresti visitare il Guatemala. 









É che certi weekend ti lasciano una traccia dentro. Lo capisci il giorno dopo, ripercorrendo quelle stesse strade. Un bicchiere ancora rotto sotto il tavolino di un bar assume di colpo lo sguardo schifato di una donna. "Ragazzi, state un po' attenti, eh!". "Ci scusi, glielo ripaghiamo". Qualcuno che strabuzza gli occhi. L'ennesimo selfie. Un sottofondo di tunz-tunz. L'angolo di un edificio un po' malandato echeggia le voci di tre ragazze che confabulano. Il palco, sconquassato dal vento forte, è tutto un clang clang di disperazione. Eppure ti sembra di vederlo ancora illuminato dai riflettori, nel momento in cui scrutavi l'orizzonte preoccupata, e tartassavi Rebecca di squilli perchè "ora inizia" e non la vedevi tornare. Poco più in là, pieni e vuoti di risate e birre, felicità e lievi tensioni, segni zodiacali e musica. Ascoltata, detta, e da ascoltare. La musica che crea e disfa i miei universi. E a cui - proprio per questo - non saprei rinunciare. 

Chè alla fine è andata come avrei voluto. E non importa se il concerto de Il Cile aveva scaletta ridotta. Se faceva troppo freddo. Se non è stato forse il mio preferito tra i suoi. Quello che importa è che ha concluso un tour sintetizzando tutto quello che per me ha significato: nuove conoscenze. Notti insonni. Dialoghi al buio e sorrisi appena sveglia. Umanità, nel bene e nel male. Amicizia. E in quella, un male, non c'è mai.