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giovedì 6 novembre 2014

In un concerto può entrarci la vita: #LogicoTour a Conegliano

15 anni. Metà della vita. Mica un fardello da niente, riempirli di canzoni.

Voglio dire, quanto può cambiare una persona in quindici anni? Quanto sono cambiata io, con gli orizzonti sempre nuovi dentro a un trolley, le passioni che sbiadiscono, gli sbalzi d'umore? Io che andavo al liceo con una cassettina nel walkman, e mi portavo il lettore cd ad una gita in inghilterra. Io che ascoltavo l'iPod sul treno per l'Università. Quattro tracce per Trieste. Molte di piú per Parma. Almeno due album su di un volo per Málaga. Io che, nell'attesa di un corriere Dhl, ho installato Spotify pure sul cellulare. C'era la stessa voce, dentro. Sempre lo stesso timbro, a rincorrermi mentre crescevo. E ora mi sembra assurdo, se ci penso. Perché, in fondo, é una delle mie poche costanti. Perché c'é stato un suo concerto sullo sfondo di ogni tappa importante. Il primo. Il mondiale del 2006. I pianti catartici in teatro. Il rientro dall'Erasmus. C'é stato lui, puntuale come la più molesta delle sveglie, a ricordarmi il passato anche mentre lo ricercavo in altri lidi. Vorrei. Vorrei che sparisce dalla scaletta come Dicono di Me dai pre-concerti spagnoli. Proprio adesso che ho la sensazione – questa sensazione assurda – che un qualche tipo di cerchio si sia chiuso.




É passata quasi una settimana, dal live di Cesare Cremonini a Conegliano. Eppure, se ci penso, mi sorprendo ancora a sorridere tra me e me. 15 anni. “Ho la sensazione che mi abbiate dato fiducia”, dice ringraziando su quel palco enorme. Ed ogni volta é come se non fossero passati. Tra le transenne mi aspettano le stesse persone, gli stessi abbracci. Hanno il sapore dei ricordi condivisi, l'aspetto di un discorso da riprendere, lasciato in sospeso appena un secondo fa. Non é stato solo un bel concerto: é stata una bella giornata. Coi crampi alla pancia dal troppo ridere. Gli aneddoti sugli spara coriandoli comprati dai cinesi. I camerieri carini, i turni in bagno, la gente che li scambia per una processione finalizzata alle foto. Attese organizzate. Attese calme. File che hanno il sapore dei re-incontri e della gioia, malgrado tutti i lividi e i disagi. “Cosí ha senso”, mi scopro a pensare. “Era per questo che lo facevo”.




Poi le canzoni. Soprattutto quelle. Il film dell'esistenza che si srotola su un palco degno delle migliori star internazionali. Occupa da solo mezzo parterre, tra esplosioni di luci e pianoforti a comparsa. Una sorta di M rovesciata che lascia proprio a tutti, finalmente, il miracolo concreto di una bella visuale. Inizia, quel film, dietro ad una tenda bianca. La sagoma di Cesare in controluce sulle note dell'intro, e subito rischio, ancora una volta, di lasciarmi andare ai paragoni. Ma basta ascoltare le prime note di Logico, e ricordo dove sono. Non hanno senso, i paragoni. Perché Cremonini é uno di quegli artisti che si assumono il rischio di iniziare con una hit. La leggo come una sicurezza ferma, ai limiti di una giustificata presunzione. Come a dire “io me lo posso permettere”. A intendere che di canzoni buone ne ha abbastanza da non temere l'inizio col botto. Non calerá, il ritmo. Non si smorzerá l'entusiasmo. Vedrete.





E infatti. Si alternano come una collana di suoni psichedelici: Dicono di Me e il viaggio in autobus a Nerja; Stupido a chi e l'Arena di Verona; Vieni a Vedere perché e Dani Martín. Si palesano La vespa e i sedici anni in discoteca. Vent'anni per sempre, Il Comico, PadreMadre e un festival della Vodafone a Lignano, Latin Lover e l'incontro di Cesena, i brividi dell'immedesimazione filo-ispanica su Fare e Disfare. E ancora “I Love You” con lo strascico di un'intera estate, La nuova stella di Broadway che piace a mio padre. C'é spazio persino per “Il primo bacio sulla Luna”, che per me ha i tornanti e le distese verdi della strada per Ronda. Che mi spiazza, disorienta, e inevitabilmente mi commuove.

La miglior scaletta che abbia mai assemblato tra tutti i suoi tour, questo mi sembra. Perché non riesco a smettere nemmeno un solo istante di cantare a squarciagola. E mi si increspano i capelli per le gocce di sudore, tra i salti e riflettori che mi illuminano il viso. Mentre impreco in direzione del cameraman che mi incolla al maxischermo e mi condanna ai “ti ho vistaa”, mentre ad ogni nuovo accordo mi sfugge dalle labbra che “questa l'adoro”. Un repertorio ad alta densità di successi, che predilige i ritmi sostenuti e sa stupire anche in quelli piú distesi. Perché Io e Anna si accompagna a un video in bianco e nero dalla fotografia impeccabile, e racconta una storia piú di quanto il testo faccia giá. Perché al piano, questa volta, non ci sono Vorrei o Niente di Piú ma Una Come Te e Figlio di Un Re. Collocate dove non ti aspetti, colorate di una tinta nuova. Ecco, forse proprio “Figlio di un Re” é il brano che mi convince meno, perché ne amavo – soprattutto – le sonoritá corali che la versione intimista mi pare un po' appiattisca.

Peró fa niente, perché poi c'é Marmellata 25. C'é Cesare che si china a cantarmi negli occhi che “mi hai lasciato pure tu”, e io che rido pensando che, invece, la sua musica é una delle poche cose che non ho lasciato mai. C'é GreyGoose, ancora. C'é Mondo. C'é Un Giorno Migliore. Che, come tutte le tradizioni che si rispettino, é ormai da anni destinata a sigillare di speranza lo show.







Uno show che ha trasformato due ore in pochi minuti. 24 canzoni in una proiezione di polaroid di esperienze fatte. Una notte in hotel nell'insonnia dell'adrenalina.

Sono cambiate tante cose, in 15 anni. Ma la felicitá che mi ha avvolta a Conegliano dimostra (ed é rassicurante!) che ce ne sono certe destinate a non cambiare mai. E quindi Grazie. Ancora una volta é questa, la sola parola che mi sento di dire. 

domenica 19 ottobre 2014

Mi Teatro.

Prometteva di ricreare l'atmosfera dei concerti, il nuovo DVD di Dani Martín. E, in un certo senso, é stato così. Non credevo di poterla provare anche attraverso uno schermo, quella sensazione. La famigliarità dei volti in mezzo a cui sono cresciuta. Lo strano senso di conforto e appartenenza. Il sorriso ebete che, per due ore di fila, mi mette in pausa il resto della vita. Mi é sempre successo, ai live. Si accendono i riflettori, i primi accordi riempiono di storia un palco, ed io dimentico di colpo ogni fastidio. Deja vú. Ricordi inanellati nelle stesse quattro note. Sei lí, sei viva. Ti aggrappi a una transenna come fai con le illusioni. D'improvviso la tua rabbia sembra sbagliata e lontana. Perdono di significato, gli episodi che ti hanno strappato di dosso l'entusiasmo. Le delusioni che ti accorgi dipendere in percentuale eccessiva da parole altrui. "Sono un'idiota", ti ripeti. "Voglio riviverlo", ti sembra urlarti in faccia l'emozione. 




Per questo, soprattutto, mi é piaciuto "Mi Teatro". Non perché ci sono anch'io, a parlare di quella stessa sensazione in fila. Non perché la mia felicità trasuda in modo evidente nel veloce primo piano sulle note di "Mira la Vida". Anche se sarebbe stata una giustificazione valida, non è nemmeno perché si guadagna a pieno titolo la dicitura "italo-spagnolo" in virtù della regia. L'ho scoperto per caso,  merito di un accento un po' troppo rivelatore e di una successiva ricerca su Google: a curarla è stato Cristian Biondani,  italianissimo e già responsabile - tra altre molte opere impeccabili - del film in 3D del concerto di Ligabue a Campovolo. Ma no, non è per questo. Mi Teatro mi è piaciuto, essenzialmente, perché per 110 minuti sono riuscita a fingere che niente fosse cambiato. 




Certo, poi spegni la tv e l'effetto passa. Tanto ormai sono rassegnata a viverla in modo conflittuale. In bilico tra l'allontanamento imposto dalla crescita e la volontà di rimanere attaccata a qualcosa in cui ho investito quasi un decennio di vita. Lo so, che quando idealizzi troppo qualcuno e te lo buttano giù dal piedistallo niente può tornare come prima. E siccome cambio gusti, cambio ascolti, trovo sempre la stessa frase nel profondo dello stomaco. Estrapolata dal contesto, eppure crudelmente vera. "Così acido è il sapore della delusione". Giá. 

Forse è un bene, però. Perché se poi cullarsi nei ricordi riesce a restituirmi quelle sensazioni, allora vuol semplicemente dire che posso guardare agli eventi con un occhio più critico. Che posso provare (se non sempre riuscire) a separare la persona dalla musica, a riconoscere quello che non mi piace risparmiando il resto. A rinunciare - Alleluiah, alleluiah - alla visione distorta della fan in favore di uno sguardo finalmente obiettivo. 

Ci sono dichiarazioni su cui ho da ridire, in effetti, dentro a quel DVD. L'affermazione per cui ora "non c'è più isterismo tra la gente che si accampa fuori dai palasport", per esempio. Oppure quella, opposta e ribadita in più interviste successive, per cui un pubblico di quindicenni è il benvenuto, perché "garantisce alla mia musica un futuro"; "Perché mi fa vendere", anzi, meglio ancora. 

É vero, non c'é dubbio. Sarebbe ipocrita sostenere il contrario. Ingenuo pensare che chi vive di musica non aspiri a commercializzarla. A quale prezzo, però? 
Puntare ad un target di adolescenti urlanti vuol dire portarle ad identificarsi nelle canzoni che scrivi. Il che spiega, peraltro, il terrore dichiarato in un altro DVD. La paura di sistemarsi, mettere sù famiglia, perché "temo che non mi verrebbero più canzoni". Perché verrebbero, in realtà, ma affronterebbero altri temi. Racconterebbero storie che le ragazzine non vivono. Il contrario, però, rischia di allontanare (come in molti casi ha - ahimè - già fatto) le trentenni che con la musica de El Canto del Loco sono cresciute. Di escludere l'ondata di madri ultra- quarantenni che erano salite sul carro dei fan all'uscita di Pequeño e che si sono volatilizzate, veloci com'erano venute, al comparire del ciuffo e dello styling per gli abiti di scena. 
É una scelta, e come tale va rispettata. Le adolescenti, però, sono umorali per definizione. Continueranno a seguirlo, quelle che ora si scrivono il suo nome sulla fronte? Se non lo faranno ne arriveranno altre, pazienza. Ma per quanto tempo ancora? Se si stuferanno, un giorno, cosa rimarrà? 

Non dovrei chiedermelo, lo so. Non dovrebbe importarmene. Non dovrei sentirmi dispiaciuta alla sola idea come se su quel palco ci fossi io. É questo il mio problema: che, nonostante le delusioni, di questa storia mi sento ancora parte attiva. Coinvolta ed incapace di indifferenza alcuna. 






E ad ogni modo resta bello, poter dire "io c'ero". Farsi venire la pelle d'oca davanti all'interpretazione di Gretel in duetto con Axel (Axel e Gretel: non fa ridere anche voi?). Sentire l'esigenza di indicare con orgoglio quel tizio con gli occhi azzurri mentre canta "Señora" con Serrat. Incoerente con tutti i pensieri pregressi insistere orgogliosa che "vedi, vedi? Ce l'ha fatta! Vedi? Lo vedi quante emozioni arrivano, da lí?". 

Dovreste comprarlo giá solo per quei due momenti, il DVD di "Mi Teatro": Per Gretel e per Señora. E poi per le altre imperdibili chicche. Tipo "Contigo" di e con Sabina. "Terriblemente Cruel" di e con Leiva. La mia faccia sconvolta che mi apre un indiscusso futuro nel cinema (di genere horror). La performance flamenca improvvisata nei camerini. O, ancora, la rivelazione inedita di un episodio imbarazzante avvenuto durante un concerto a Mallorca, fatto di pantaloni strappati e di mutande assenti. Che, tra parentesi, leggo come una chiara pulsione al masochismo. Perché, a meno che non sia un modo morboso per strappare altri urletti alle adolescenti, a me qualche domanda la impone. Voglio dire: io non sono un uomo, ma non dev'essere quantomeno scomodo se non dolorosissimo portare gli skinny jeans senza mutande? Mah. 

E, tanto per restare in tema di Domande Esistenziali, ce ne sono due a cui non avremo mai risposta: 

La strada che percorrono con il furgoncino é inquietantemente poco varia in quanto a panorama, o hanno passato un'ora a girare su se stessi? E, soprattutto, come diavolo fa a rimanergli intatto il ciuffo dopo 3 ore di show, se io dopo cinque minuti ho in testa un cespuglio degno del migliore performer reggae? Dopo tutti questi anni, almeno un prodotto per capelli, Dani, potrebbe anche consigliarmelo. Che diamine. 

lunedì 8 settembre 2014

In Cile Veritas.

Sensazione strana, quella della fiducia ripagata. 
Ti vien voglia di gridarla ai quattro venti. Condividerla, orgogliosa, negli "avevo ragione". 
Che poi tu mica c'entri. Non hai fatto proprio nulla, se non pagare (e dieci euro, mica un capitale!) per un pre-ordine su Amazon. No. La tua sola parte attiva nel progetto, se mai c'è stata, si è limitata all'assillo dei tuoi rassegnati amici, quelli che ancora si chiedono - poracci! - quand'è che smetterai di vivere laddove un palco muore. 
Eppure eccoti qui, esaltata come le due quindicenni che ami affermare ti compongano i trent'anni. Ridicola, probabilmente. Ma, fuori da ogni dubbio, sollevata. 




Dovevo parlarne, perciò, del nuovo album de Il Cile. Ci ho riservato un primo ascolto febbrile, costruito di attese protratte e curiosità nutrita di commenti positivi. I mezzi erano quelli che erano. Un paio di cuffie intorcigliate. Un vecchio computer ormai talmente scassato da impedirmi di fissare altro che non fosse la schermata di Spotify (alla lunga, interessante quanto la vernice che si asciuga). Si impallava, ad aprire altre finestre. Evitava, da solo, qualsivoglia distrazione. E allora ci ho chiuso gli occhi, su tutto quel nero. 37 minuti di pausa dal mondo. Un incresparsi di brividi che è iniziato ad accentuarsi già al crescendo musicale di ascoltando i tuoi passi.

Dietro a In Cile Veritas c'è, nel complesso, un cantautore più positivo e leggermente meno criptico di quello conosciuto con Siamo Morti a Vent'anni. Di quel disco però conserva e ulteriormente affina le caratteristiche essenziali, in una tensione al miglioramento che - come ho scritto più volte - è in ogni campo artistico la sola cosa in grado di garantirti un futuro. Il timbro vocale, per esempio, resta inconfondibile nel suo spezzarsi arrugginito e roco. Si fa, però, più rotondo e pieno, più sicuro di sé, capace di virtuosismi assenti nell'opera prima. I testi stessi, per quanto sembrasse difficile, eguagliano - se non addirittura superano-  in profondità quelli a cui ci aveva abituati dal 2012 di Cemento Armato. Versi da pelle d'oca sono disseminati qua e là a densità talmente elevata da rendere difficile la scelta ogni volta che vorresti citarne qualcuno. Malinconia, tenerezza ed ironia ci si alternano dentro a comporre un quadro che, come solo Il Cile riesce a fare, racconta una generazione intera semplicemente parlando di sé. Ascoltate Liberi di Vivere e capirete cosa voglio dire. 

A livello tematico, l'alcol è il filo conduttore che lega sottilmente le 10 tracce, giustificando il titolo dell'opera e la scelta (discussa e forse discutibile) del primo singolo estratto. Bicchieri consolatori di Jack Daniel's, tequila, bottiglie vuote ed anime ad alta gradazione sono, a ben vedere, il fondale di un'unica storia che si snocciola poetica e viscerale in collane di parole da perdercisi dentro.  Una volta mi ha detto, Lorenzo Cilembrini, che quando scrive abbonda in "labor limae". Beh, secondo me in questo disco si nota e gli è riuscito più che mai. 

I brani migliori? Personalmente direi "Parlano di te", il momento più alto di tutto l'album. Crepuscolare nei suoi piatti da lavare; visivo nel suo descrivere di oggetti e situazioni comuni la fine di un amore; semplicemente lirico già dalla prima strofa, che anche slegata dalla melodia è un dipinto prezioso a pennellate di parole. 

"Luglio coi suoi passi felpati sulla terra secca e l'asfalto con le rughe, mi prende ogni volta alle spalle come i brividi delle mie paure". 





Per non citare "Parlano di te queste stelle ormeggiate in un mare al contrario di una notte d'estate", una delle mie frasi preferite in assoluto assieme a "Ogni volta che ti osservo nel mio sangue si scioglie la Luna" di Vorrei Chiederti (ribadisco: sono una romantica, che ci volete fare?) 

Poi "L'Amore è un suicidio": la botta di vita del disco, la sferzata di energia rock, l'irrinunciabile parentesi ironica in cui riversare fiato e polmoni. 





Un'Altra Aurora (PS: correggete il booklet, c'è un refuso!) sorprende nel suo rivelare un Cile tutto sommato finalmente sereno. Perché la cerca così tanto che "si ammazzerebbe", sì. Raccoglie i suoi rottami, e lascia le unghie sulla parete. Ma poi ringrazia la sua vita e si perde nell'immenso di ogni suo sorriso. Orecchiabile e destinata ad incollartisi dentro, con quel suo nananananananana che ti condannerà a canticchiarla fino alla perdizione. 




E ancora "Sapevi di Me", il singolo attualmente in rotazione. Quello che mi ha sciolta, conquistata e catturata fino a diventare il mio mantra personale. Il biglietto da visita vero che apre In Cile Veritas con quella che è a conti fatti una sorta di seconda parte del brano, omonimo, che dava il via a "Siamo Morti a Vent'anni". 




A convincermi un po' meno è invece Maryjane. Leggermente modificata in alcune parti del testo rispetto alla versione che ci aveva regalato Il Cile in un video su Facebook. Carina, senza dubbio. Ma, forse anche perché priva del fascino della scoperta, di livello lievemente inferiore alle altre. 

Baron Samedi perde un po' la carica esplosiva che ha nella versione live, la dirompenza di quel video consumato di play. Ma è comunque bello avere finalmente incisa la frase in cui , sin dalla primissimo ascolto, mi sono ritrovata più che in qualunque altra. Perché anche "Il mio cervello è una centrale nucleare con le scorie da smaltire" e ogni volta che l'ascolto mi sento un po' meno sola. 





"Sole, Cuore, Alta Gradazione", infine. Quel singolo che, col senno di poi, forse non era il più adatto ad introdurre l'album. Non per il brano in sé (che a me è piaciuto subito, e continua a piacere) quanto per le reazioni avute. Chè sono stati in molti a non averlo capito. Si sono soffermati all'involucro di sonorità radiofonicamente accattivanti per non arrivare a cogliere la derisione intrinseca, parodica e satirica, del testo. Chi si aspettava il ritorno del tizio di Cemento Armato ne è rimasto a volte un po' deluso, ed è un peccato perché quel tizio, invece, ne "In Cile Veritas" c'è tutto, dal primo all'ultimo di quei trentasette minuti. Ed io, ascoltandolo, riscopro nei suoi confronti quella stessa ammirazione assoluta e  intimidita che provai quando, in auto verso Gorizia, inserii per la prima volta "Siamo Morti a Vent'anni" nello stereo. 

Chè certe parole, non si sa come, ti specchiano. Cambiano. Toccano dentro. E Il Cile, con me, è riuscito a farlo di nuovo. Ha dichiarato, a La Stampa, che scrivere  "è quello che so fare, non so fare altro". Posso solo augurargli di non smettere mai. 


giovedì 29 maggio 2014

La festa di Dani Martín a Madrid [via Total Free Magazine]

In fondo è un po' come l'indigestione. Ti senti le parole in testa, strutturate alla bell'e meglio, pronte a uscire nei momenti piú impensati. Liberarle si fa urgenza fisiologica; necessitá primaria che, non soddisfatta, ti fa stare male. Poi lo so, non sará un paragone bello. Eppure dopo - quanti? - cinque giorni oggi sono finalmente riuscita a vomitare. Vomitare, sì. Ho scritto di getto, in modo insano, con le dita impicciate dall'eccesso di velocità. Ho scritto col terrore irrazionale che, se non l'avessi fatto, avrei perduto i ricordi per sempre. Mi sono divertita. Liberata. Come per una condanna inversa, sono riuscita a ritrovare il buonumore. Cosí adesso mi ritrovo qui con tre pagine di word prive di sintassi e di punteggiatura. Flussi di deliri in lingue miste a cui, nei prossimi giorni, cercherò di dare comprensibilità. A quel punto, lo vogliate o meno, potrò finalmente condividerli con voi. 



Nell'attesa, visto che vi avevo promesso resoconti dettagliati, vi rimando ad una cronaca più "seria" dei due concerti di Dani Martín che la scorsa settimana mi sono goduta al Palacio de Los Deportes di Madrid. L'ho scritta per Total Free Magazine, e spero possa iniziare a trasportarvi un po' lá. Buona lettura. 




giovedì 16 gennaio 2014

Ho Smesso Tutto [Una Pseudo- Recensione]

Certi libri malsopportano i confini. Le pagine finiscono, e invece loro no. Così te li porti dietro, come una cicatrice rimasta sotto al cuore. Non per questo bella. Perchè i concetti estetici, in fondo, sono essi stessi confini.

Ecco: “Ho smesso tutto” rientra nella categoria. E non saprei descriverla, la sensazione che mi ha lasciato addosso. Non sono neanche certa di averla capita. E' un sapore amaro in bocca, di quelli che danno fastidio. Somiglia al disincanto. All'angoscia. A volte, in qualche modo, arriva a disgustare.





Che Il Cile scrive bene, poi, s'è sempre saputo. Almeno lo sapevo io, che ho aggiunto vari pezzi alla mia vita da quando mi sono innamorata delle sue parole. Eppure riesco ancora a stupirmi, davanti allo sbigottimento che mi creano le sue frasi. A quel senso di stordita ammirazione provato tante volte ascoltando le sue canzoni. Voglio dire: dovrei esserci abituata, ormai.

Invece compro quel libro. Sento dire che si legge in due ore. Che si divora, via, d'un fiato. Ed io, lettrice accanita, ci impiego la bellezza di una settimana. Sette giorni, capite? Decine di minuti passati su uno stesso paragrafo. Replay di occhi su concetti e sostantivi. Sull'ironia di quei pub in legno che nascondono piromanie latenti; sull'empatia dei cervelli che viaggiano troppo veloci per accettare di rallentarsi con le droghe leggere. Lo degusto, “Ho smesso tutto”, come se fosse un vino. Poi mi chiedono se é bello, ed io non so che dire. 



Allora dico che Il Cile scrive bene, perché forse questo giá basta. Basta alla sorta di competizione intrinseca che aggiunge un po' di pepe al mio esprimerlo ad alta voce. Perché al talento altrui reagisco  in tre fasi:  prima l'ammirazione, poi un pizzico d'invidia; per ultima, la voglia di aprire un foglio bianco di word. Manco mi dovessi misurare con qualcuno. O con qualcosa. Manco dovessi per forza dare il meglio di me. 

Chissá, magari capita anche a lui. Ho sempre pensato, ascoltando le sue interviste, che il suo modo di vivere la scrittura fosse sorprendentemente simile al mio. Non nella forma, certo; ma nell'approccio, nella genesi, nelle finalitá. Mi fa sorridere perché, per il resto, con il suo mondo non ho niente in comune. In certo modo é consolatorio. Fa pensare che ci sia una sorta di democrazia, nelle discipline creative. Insomma: puoi essere una persona tranquilla o vivere su una montagna russa di emozioni; puoi lavorare in banca o fare rock 'n'roll, ma quella passione, se ti prende, non sta certo lí a guardare chi sei. Non ti giudica, come non riesco a fare io con il romanzo de Il Cile. 

Forse dipende anche dalla sua natura frammentaria. Per certi versi é come leggere un blog trasposto su carta, tanto per parlare di cose che conosco. Non ti piaceranno mai tutti i post allo stesso modo. 

E a me, di “Ho smesso tutto”, la seconda parte piace infinitamente piú della prima. Ecco, diciamo che se il romanzo fosse iniziato a pagina 83 non avrei esitato. Avrei scritto che é stupendo. Vi avrei imposto di comprarlo con quel tono minatorio che mi dá l'entusiasmo quando é troppo acceso. Perchè da lí, da pagina 83, tutto diventa piú profondo. Piú umano. Piú toccante. Le scene ti sembra di vederle. Le persone di conoscerle. Le sensazioni, di viverle. 

Ma non inizia a pagina 83. Certo, prima di quello scoglio ci sono perle come il racconto dedicato a “Soldy”, in assoluto quello che piú mi ha fatta ridere. Peró mi manca quella vena di sentimento che invece é, a suo modo, cosí intensa nelle ultime pagine. Gusto personale, suppongo: sono e resto una romantica, vi piaccia o no.

Peró ci vuole coraggio, a scrivere un libro del genere. Puoi insistere nel dichiararlo non autobiografico, ma resta narrato in prima persona. Riferimenti ed esperienze rimangono riconoscibili. E, come ovvia conseguenza, ti espone a ragionevoli dubbi. Io, che mi sono decisa a pubblicare qualcosa solo quando era palese che non parlasse di me, trovo il fregarsene estremamente lodevole. 

E poi quella cicatrice me la sto portando dietro. Quindi magari non sapró dirvi se “Ho Smesso Tutto” è bello. Ma, nonostante Il Cile continui a piacermi di piú come cantautore, la sua prosa si merita senz'altro una chanche. 

venerdì 28 giugno 2013

Appuntamento alla Lovat.


Luca Bianchini, urge ribadirlo, è autore di alcuni tra i miei personali libri-cult. Tra i suoi meriti, quello di creare i personaggi con le manie più contagiose nella storia della fiction. Tra le sue colpe, il fatto che io non riesca più ad evitare di leggere l'ultima riga di un romanzo prima ancora di averlo iniziato. Quella di “Io che amo solo te”, ad esempio, è: “non avrebbe mai voluto vederli salire in macchina e tornare a casa”. Cioè, più o meno la stessa sensazione che ho avvertito io chiudendo il libro. 

Ma Luca Bianchini, al di là delle recensioni (ne ho scritta una su Anobii, se proprio vi interessa), è soprattutto una bella persona. Ecco perchè, se capita a Trieste, cerco di non perdermi le sue presentazioni. Il nostro, ormai, è un appuntamento scandito dalle uscite editoriali. Un rituale di penne, di orecchie e di firme consumato a scadenza biennale tra gli scaffali affollati della libreria Lovat. E, non si sa come, riesco sempre ad uscirci con un grande sorriso. 



Sarà che gli ingredienti sono ancora gli stessi: una parlantina fluida, un'umanità fatta di dubbi ed ansie, e quell'innato talento nel trattare con le persone. Nel farle sentire speciali, tutte. Anche se solo per il tempo di un autografo o una foto. E, tra la consegna di un cornetto portafortuna e una battuta sovrastata dal megafono, ancora mi stupisce che, ogni volta, si ricordi di me. 

E poi c'è il pubblico, quello che riempie le sedie. Volti di età e abitudini diverse che, più che seguire lo scrittore, sembrano essersi materializzate dalla sua stessa penna. Come i suoi personaggi, sono divertenti e appena un po' sopra le righe. Umanissimi, a tutto tondo, eppure caratterizzati in un unico tratto distintivo. Come ai suoi personaggi – inevitabile – ti ci affezioni sempre un po'. 

Prendi la signora seduta alla mia sinistra, per esempio. Quella che parla con spiccato accento triestino e c'ha la fissa degli oroscopi. Non legge libri,  afferma con insolita fierezza. Per Bianchini, tuttavia, farà un'eccezione. Sì, perchè lei c'è venuta due volte, in libreria. E “go dito, orca ciò, go sbaià giorno”. Chiede come vive il suo essere acquario, perchè se uno è acquario si vede da lontano, dai. Chè lei è dei Pesci, 'ste cose le sa. 

O prendi, magari, il ragazzino sedicenne. Quello che si sveglia ogni mattina ascoltando Colazione da Tiffany, su Radio2. “E continuerei ad ascoltarla, se non mi toccasse andare a scuola”. La sorella, in virtù di quelle levatacce, odia la voce che oggi s'è rifiutata di venire ad ascoltare. 

C'è anche un ragazzo piuttosto carino. Mi si palesa davanti per una frazione di secondo, diretto a tutt'altro settore. Sbircio velocemente. Narrativa italiana? Straniera? Umorismo? Naa, per me c'ha la faccia da Thriller. O noir. Se magari cercasse qualche biografia di musicista, invece? A vederlo, potrebbe suonare in una band. In ogni caso, lui non è qui per ascoltare Bianchini. Ragion per cui lo perdo di vista quasi subito. 

Peccato. Innamorarmi in una libreria, tra i miei sogni di romanticona, si colloca al terzo gradino del podio. In concreto, dopo la scintilla scoccata in aeroporto e quella che fa galeotto un qualsiasi  concerto pop-rock. In effetti, ora che ci penso, ci starei bene anch'io, in un libro di Bianchini. 



La storia di leggere l'ultima riga, comunque, non è poi così male. Tanto per dirne una, mi ha appena permesso di apprezzare una finezza non da poco anche nell'ultimo successo di Dan Brown. Perchè, se l'Inferno di Dante Alighieri si conclude con “e quindi uscimmo a riveder le stelle”, il suo, d'Inferno, finisce così: “Fuori, nell'oscurità appena scesa, il mondo si era trasformato: il cielo era diventato un arazzo scintillante di stelle”. 

E non mi direte che è un caso. 

mercoledì 29 febbraio 2012

Freddo, in effetti, 'sto vento del Nord.

Le grandi aspettative ti fregano sempre. E' un dato di fatto. Ecco perché oggi vi parlo di un libro. Un best seller, se vogliamo puntualizzare. Uno di quegli inspiegabili innamoramenti collettivi fatti di “ohhh” e di “aaah” sullo schermo di Anobii. Fatti di commenti, in questo caso, di cui mi ero fidata anch'io. Errore. 

Dai, ne avrete senz'altro sentito parlare. L'autore é un austriaco, tale Daniel Glattauer. Titolo: “Le ho mai raccontato del vento del Nord”. Scritto così, senza punto di domanda. Quanto alla trama, io la riassumerei come segue: 



Due tizi, uno più antipatico dell'altro (lei più di lui, a onor del vero), si innamorano via mail senza essersi mai visti di persona. Per anni, la loro corrispondenza consiste grossomodo nella ripetizione in loop della stessa paranoia. Sempre quella: "cosa succederebbe se ci incontrassimo?". Fanno qualche rara eccezione giusto per raccontarsi di essere finiti l'uno nelle fantasie sessuali dell'altra. Ma, anche in quel caso –  non si sa per che ragione – sempre e comunque dandosi del lei. Contenti loro...

Che poi non posso dire che sia brutto, intendiamoci. Probabilmente, se solo il resto dell'umanità non l'avesse decantato, l'avrei etichettato con l'indifferenza. Catalogato come uno di quei romanzi che ti passano davanti senza lasciare traccia. Quantomeno, non ci avrei di sicuro dedicato un post. Le aspettative, però...ah, quelle non perdonano mica! La loro dimensione é inversamente proporzionale alle delusione. Lo sarà sempre, per quanto tu possa provare ad opportici. 

E allora io mi chiedo: che cosa ci avete trovato, in questo cosiddetto “geniale capolavoro”? Cos'é che ve l'ha fatto definire così? No, perchè a me non riesce a trasmettere alcun calore. E un romanzo sull'amore in cui non percepisci il cuore, dite: che romanzo d'amore è? 

Vedete: io l'ho vissuta, e pure tante volte, l'esperienza di conoscere qualcuno prima per iscritto che in realtà. E vi assicuro che é fisicamente impossibile limitarsi ad analizzare lo stile letterario dell'altro. A criticarne con pazienza certosina soluzioni narrative poco indovinate, o  lodarne il sarcasmo come alternativa. Macché. Quando per un tempo prolungato scambi mail con qualcuno, la tua vita interna ed esteriore finisce con l'irromperci dentro. Che tu lo voglia, o meno. E non mi riferisco a qualche raro rimando alla famiglia, all'aspetto fisico, all'età. No. Io parlo di carattere. Di umore. Di battiti cardiaci. Parlo di quelle volte in cui, nell'impazienza di rispondere, dimentichi le virgole e te ne freghi delle ripetizioni. Delle volte in cui la tua gioia traspare in un eccesso di punti interrogativi. Di quando la vicinanza empatica ti porta a infilare espressioni dell'altro in mezzo alla tua stessa sfilza di righe. O, ancora, parlo di quando scrivi in lacrime. E, paradossalmente, é proprio allora che rifletti sui punti. Che rileggi mille volte. Che risulti più poetica e, al contempo, maledettamente più formale. 

Quello che voglio dire, soprattutto, è che quando scrivi sei tu. In sfumature ogni giorno diverse ,eppure sempre uguale nei tuoi tratti distintivi. Ed è questo che manca, nel romanzo di Glattauer. Ci sono due persone che si scrivono (anzi, tre, per essere sinceri) eppure tu ci leggi un esclusivo autore. Un autore che, per differenziarli, deve ricorrere a espedienti narrativi bassi: il nome del destinatario ripetuto come un mantra nel testo di ogni lettera. Gli elenchi per punti che, nella prima parte, dovrebbero contraddistinguere lei. Ma lo stile, in tutto questo, resta uguale. Elegante . Ricercato. Un po' spocchioso. Sempre e indiscutibilmente senza alcuna sbavatura. Mai. 

Siano tristi o siano felici, Emmi e Leo conservano nei periodi sempre lo stesso tono. Si parlano addosso, questo é. Parlano a sé stessi prima che all'altro, tanto che più che un dialogo a me sembra un monologo. Più che una storia, un mero e disperante esercizio di stile. 



Per questo non le capisco, tutte quelle lodi. Volete un romanzo epistolare? Uno bello, autentico, vero? Uno che scaldi come un piumone? Uno in cui sul serio si respiri vita? Ecco, allora leggetevi Scrivimi ancora. Certo, é di Cecelia Ahern. Orrore, un'autrice "commerciale"! Troppo in linea con chi ascolta pop. E poi ha la copertina in toni pastello, per l'amor del cielo! Certo non è appropriato se vuoi fingerti persona mediamente intelletuale. Eppure, ragazzi, che volete che vi dica? Io dai libri cerco la stessa cosa che richiedo a musica e film: che mi emozionino. Che mi facciano sorridere. Ridere a crepapelle. O magari piangere. Spaventare. Pensare. Stupire. In estrema sintesi, che mi facciano battere il cuore. 

E allora me ne frego, se ci riesce la Ahern e non un elogiato giornalista austriaco. Se ce la fa la Kinsella e – proprio per niente – Fabio Volo. Il vento del Nord, per me, è troppo freddo, e dei commenti di Anobii non dovrei fidarmi più. In fondo, è probabile che chi condivide i miei gusti usi quel sito esattamente come me. Io che per recensire sono pigra. Io che mi limito a giudizi di stelle, troppo invisibili perché qualcuno li veda.