Visualizzazione post con etichetta recensione. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta recensione. Mostra tutti i post

sabato 10 novembre 2018

Origins (e quel saputello di Google)

Era tutto il giorno che aspettavo con ansia il momento giusto per premere play.

Perchè gli album delle band che ti marcano il ritmo della vita mica li puoi ascoltare così, mentre lavi i piatti, come un sottofondo qualsiasi a cui non presti attenzione.

Naa. Ti ci devi immergere, come in una vasca piena di schiuma.

Devono essere la coccola che fai a te stessa mentre t'isoli dal mondo in uno spazio tutto tuo.

Le band che ti marcano il ritmo della vita si meritano le tue orecchie, i tuoi cinque sensi, il tuo cuore.

Persino Google mi aveva mandato una notifica: "Nuovo disco degli Imagine Dragons, Origins".




Già. Come se non lo sapessi. 


Sul serio, sta diventando ogni giorno più invadente, 'sto coso. 

E "Sono le 2 di notte, cosa fai ancora in giro? Hai 4 hotel vicino, se mai volessi dormire". 

E "Sei alla Casa de Guardia, è un buon posto per fare foto. Fai foto, daaaai. Fai foto, ti prego, fai fotooo. Ma non hai ancora fatto neanche una foto?" 

E "Il tuo volo è oggi. Dovresti uscire di casa adesso perchè potrebbero esserci ingorghi".

Google, te lo dico da amica: E FATTELA, OGNI TANTO, UNA VAGONATA DI FATTI TUOI!


Mamma mia che saputello, oh. Più pesante della gente che qui non la smette più di parlare di Rosalía.

Che poi continua a mandarmi notizie di calcio da quando quest'estate, annoiata sul bus, avevo fatto una ricerca su Isco. Vediamo chi gli spiega che volevo solo sapere quanti anni ha.

Ma, si diceva, gli Imagine Dragons.

Avevo delle buone sensazioni su quest'album, e alla fin fine non si può dire che mi sbagliassi.


Certo, non arriva ai livelli di Smoke + Mirrors.

Di Smoke + Mirrors ce ne sarà sempre e soltanto uno.

Di sicuro, però, ci si avvicina più di Evolve.
Al primo ascolto, le mie canzoni preferite (almeno tra quelle che ancora non conoscevo) sono Cool Out e West Coast. Soprattutto perchè "Sarò la tua West Coast" sarebbe la dichiarazione d'amore definitiva, per me. Quella o "Sarò la tua Málaga". O "Sarò le tue conchas finas al pil pil" . O "Sarò la tua overdose di carboidrati". 'Na roba così.







Ma sto di nuovo divagando.

Digital mi affascinava già nei 30 secondi del teaser che annunciava l'album, e continua a farlo anche ora che l'ho masticata intera. A dire il vero ancora non capisco se mi piaccia o meno, ma è la "I'm so sorry" di questo disco, e penso che dal vivo sarà spettacolare.


In generale, tutta la prima parte mi pare nettamente superiore alla seconda. Only e Stuck, ad essere sincera, le eliminerei proprio dalla tracklist. Ma poi arriva Real Life e, nell'adrenalina che ri-esplode, riscopro il miglior riscatto possibile.


Insomma: ascoltatevelo. Che ve lo dica Google oppure no.

giovedì 6 luglio 2017

L'evoluzione controversa degli Imagine Dragons

Countdown agli sgoccioli. Trolley aperto a terra. Immagino sia inutile aspettare ancora. 


Io lo so che Lunedì mi verrà la pelle d'oca, quando tutta la storia dell'Arena di Verona incornicerà le note di Radioactive come se si trattasse di un bel quadro. E starò lì, esaltata e confusa, a sperare come sempre che quel tripudio di batteria non finisca mai. 

Sì, vado a vedere gli Imagine Dragons. Torno in Italia apposta. Perchè non so se la musica faccia davvero muovere il mondo, ma di sicuro fa muovere me. 

Per questo, nell'ascolto compulsivo del pre-live, mi sembra giunto il momento di dirvi la mia sul loro nuovo lavoro. Certo, non che l'umanità ne sentisse l'esigenza, ma concedetemi di affollare il web con una voce in più. 




Evolve, lo devo ammettere, non è stato subito facile da digerire. Se tre dischi fanno una prova, Dan Reynolds e i suoi fanno parte di quella categoria di musicisti che non ha affatto paura di osare. Amano sperimentare, divertirsi con i suoni, farsi permeare dalle influenze che  - mentre girano il mondo -  gli arrivano alle orecchie dallo stereo. Sarebbe stato fin troppo facile replicare con lo stampino gli ingredienti di hit che sono valse un Grammy, ma evidentemente non era quello che volevano. L'avevano dimostrato già con Smoke & Mirrors, e l'hanno ribadito ora. 

Il punto è che io, in tutti i campi artistici, ammiro da morire chi ha il coraggio di andare avanti per la propria strada. Di reinventarsi. Di spiazzare i fan. Solo che, quando ami alla follia certe sonorità, i cambiamenti si fanno complicati da accettare. 

Evolve conserva nei tappeti di percussione la cifra identificativa degli Imagine Dragons, ma la colora di elettronica e campionature. Al primo ascolto, le melodie mi sembravano omologarsi a una corrente generale, che ad occhi chiusi e ascoltatori ignari avrebbe potuto rendere l'attribuzione difficile. Sono i Bastille, Sono gli One Republic, Sono i Coldplay? Le perplessità erano tante. Soprattutto quando, arrivata all'ultima traccia, mi sono trovata ad ascoltare una roba distorta che per qualche ragione associo al consumo di sostanze stupefacenti. E mi veniva da chiedere quali avessero assunto loro per pensare di dar vita a "Dancing in The Dark". 

Però ho voluto darmi tempo, prima di cadere nel giudizio facile, e oggi posso dire che ho fatto bene! Perchè se il brano finale non riuscirò probabilmente mai a farmelo piacere, tutti gli altri sono andati magicamente a comporre quello che adesso è per me un autentico capolavoro. Quelle che seguono sono le mie canzoni preferite, che vi invito, di cuore, a conoscere. 

1. Walking The Wire


La più vicina alle sonorità degli Imagine Dragons vecchio stile. Me ne sono innamorata sin dal primissimo ascolto, arrivato a pochi giorni dall'uscita del disco. Vi basterà premere play per capire perchè. 





2. Whatever it takes

Anche questa uscita sul web come antipasto all'album, il frontman Dan Reynolds l'ha definita come il riassunto perfetto dello spirito che incarna l'intero lavoro. Pulita, precisa ed emotiva parla di accettare se stessi senza vergognarsi dei difetti, e con tutte le debolezze del caso fare tutto ciò che serve per raggiungere i propri obiettivi. 







La mia preferita in assoluto. Non solo per la melodia, il ritmo e l'indiscutibile orecchiabilità ma - forse soprattutto - per il testo, che ho immediatamente trasformato in una sorta di inno personale. Lo trovate tradotto qui sotto.
Una curiosità: la band ha anche accompagnato il brano con un video non ufficiale che racconta il loro percorso e che io trovo semplicemente meraviglioso. 







Ieri 


Questa è per il mio futuro, 
Questa è per il mio ieri. 

Questa è per il cambiamento, 
Questa è per il mio ieri. 
Non c'è domani senza ieri. 

Questa è per il mio futuro, 
addio a ieri. 

In tutti questi anni ho cercato 
di capire chi avrei dovuto essere. 
Tutto tempo sprecato: 
ero proprio qui davanti a me. 

E' una vecchia tradizione corrotta 
da un mago potente,
Ma tra tutti i problemi che ho incontrato
non ho neanche un singolo rimpianto. 


Questa è per il mio futuro, 
Questa è per il mio ieri. 

Questa è per il cambiamento, 
Questa è per il mio ieri. 
Non c'è domani senza ieri. 

Questa è per il mio futuro, 
addio a ieri. 

Sono uno schianto inevitabile
perchè sono schiavo del mio orgoglio
per mia stessa volontà 
sono stato un santo, sono stato la verità, sono stato una bugia. 


E' una vecchia tradizione corrotta 
da un mago potente,
Ma tra tutti i problemi che ho incontrato
non ho neanche un singolo rimpianto. 


Questa è per il mio futuro, 
Questa è per il mio ieri. 

Questa è per il cambiamento, 
Questa è per il mio ieri. 
Non c'è domani senza ieri. 

Questa è per il mio futuro, 
addio a ieri. 

Puoi vivere un nuovo giorno, 
Puoi fare tutto ciò che vuoi, 
è il tuo gioco: muoviti in basso, vola alto, 
ovunque tu voglia.
Puoi raggiungere persino la luna, 
Ogni posto in cui i tuoi sogni possono portarti.
Vai fuori rotta, svanisci, 
lascia semplicemente tutto al passato. 




E voi, quale canzone di Evolve preferite? 










domenica 18 giugno 2017

Torera (con la o che diventa a)

L'arte, in tutte le sue forme, aiuta a vivere meglio. É questo che ho pensato ieri quando sono uscita dal Cervantes, oltre che ultimamente passo più tempo lì che a casa mia. Torera di Ursula Moreno mi ha lasciato addosso la soddisfazione euforica delle cose belle. Quelle che ti riempiono di brividi, stordendoti di commozioni trattenute mentre in platea parte la standing ovation. 

I volantini, per presentare lo spettacolo, avevano assemblato sfilze di concetti criptici. Parlavano di Eros e Tanatos. Dualismi. Totem. Sguardo femminile. 

Io, invece, lo definirei come una sorta di musical flamenco. Le melodie della chitarra, la voce discontinua del cante e - soprattutto - il ballo sono qui insieme pretesto e mezzo per raccontare una storia. Ed è un racconto in cui la mera narrazione dei fatti si alterna armonica all'evocazione delle sensazioni, come soltanto l'arte riesce a fare.  

Luci, scenari, costumi e coreografie si fondono per non lasciare niente al caso. Quello che creano, inscindibili e mai scisse, è la fusione perfetta tra teatro e tablao, tradizione e contaminazione,  classico e contemporaneo.  É pura Andalusia e, insieme, Pianeta intero. E in quella o cancellata dalla a c'é non soltanto il vero titolo, ma il riassunto supremo dello show. 




La trama é semplice. Una donna conosce l'amore spolverandogli le scarpe. Sono normali calzature da flamenco, come quelle che, sul palco, aspettavano la folla di ragazze che ballando scalze in mezzo al pubblico, hanno dato inizio alla funzione. Clamore di nacchere. Atmosfera festosa. Si fa conquistare, quella donna, in un gioco di bende che è certamente scherzo, ma anche un po' possesso e superiorità. 

Lui fa il torero. 
Lo vediamo poco dopo nell'arena, in una delle scene migliori, intento ad affrontare il toro incarnato dal magistrale Akim Santos: perfetto nel ricreare i movimenti dell'animale furioso - e poi ferito, e poi morente - tra ruote, acrobazie e passi di danza contemporanea. Quasi lo incorna. Posizioni congelate. La voce della cantaora, nascosta dietro ad un pannello, si palesa per la prima volta in un tragico "me apareció la muerte" mentre un solo fascio di luce illumina la ragazza del torero. In piedi tra gli spalti, un velo bianco in testa, sembra quasi la Madonna. L'attimo si scongela. Azione. Banderillas immaginarie. Ed é l'uomo a vincere, alla fine, i movimenti del capote alternati al zapateado. Il trionfo. La gioia. La felicità. 



Il torero e la ragazza si sposano di lì a poco, con tanto di cambio d'abito in scena. 




Durante la festa, il tempo si ferma di nuovo. Ed è lì che, in carezze silenziose allo sposo, la luce bianca ci svela le intenzioni di una delle amiche di lei.

Andranno a letto insieme, alla fine, in un amplesso ricostruito con i movimenti della bata de cola. La sposa li becca, nell'urlo disperato che il cante non lesina a sottolineare. 

Fine prima parte. E da lì tutto cambia, non solo nei vestiti. Da quel momento in poi la prima ballerina sarà sempre accompagnata, alle spalle, dalla figura del toro. Perchè lei, adesso, è il toro. Lo è in quanto bestia ferita, sconfitta, ingannata dall'uomo che ama. Ma lo è anche, forse, per la cieca furia che porta con sè. 



In un crescendo continuo, tra scontri e liti fatte di taconeo e braceo, le vicende precipitano verso il finale, che è poi l'altra delle scene che ho preferito. Il torero affronta il toro, di nuovo. Ma adesso l'arena non c'è. Adesso è solo un simbolo, un emblema, qualcosa che per questo è ancora più pericoloso. Il duello si consuma, per chiudere il cerchio, tra i ballerini vestiti con manti neri all'esterno e rossi all'interno, ad evocare il capote in un effetto coreografico ai limiti dello straordinario. 

Il toro sta per avere la meglio. Poi la donna, che osservava la scena dall'alto, gli si avvicina. Un solo colpo sulla spalla, e l'animale si ritrae. Lei restituisce al marito il fazzoletto con cui l'ha conquistata e lo guarda andarsene via affranto. Senza più tori. Senza più rancore.

Nella scena dopo la vediamo ballare da sola, felice, circondata dalle altre ballerine che sembrano indicarla come a dire "guardatela! Guardatela adesso". La cantaora mette in musica qualcosa che non capisco, ma che mi sembra voglia dire "ora respira". É una celebrazione delle donne, dell'indipendenza, della forza, della libertà. In definitiva, della o che diventa a

Che poi, magari, la mia interpretazione non è nemmeno giusta. Forse ho frainteso tutto. Forse non c'ho capito nulla. Ma il bello dell'arte, in fondo, è proprio questo: che ti lascia spiragli di apertura, buchi di irrazionale da riempire a tuo gusto con la tua visione del mondo, i tuoi sentimenti, e le tue prospettive.

Perciò se quel toro aveva un altro significato; se quelle parole me le sono immaginate; se era davvero soltanto una questione di tensioni contrastanti, Eros e Tanatos, visione femminile...beh, allora vi chiedo scusa tantissimo, ma non lo voglio sapere. Perchè Torera, io, l'ho fatto mio così. 

Perchè Torera mi ha fatto amare il flamenco ancora di più di quanto già lo amassi prima. 

E se mai vi capitasse di trovarlo in programmazione in un teatro vicino a voi, vi prego, fatevi il favore di andarlo a vedere. 


venerdì 11 settembre 2015

El Pescao sul tetto che scotta (Live The Roof, Barcelona)

Mi è francamente difficile immaginare qualcosa di meglio di un concerto intimo al tramonto. Su di una terrazza panoramica. Al sesto piano di un hotel con vista su di una città spagnola. Figuriamoci se, poi, quella città si apre sul mare. Figuriamoci se a cantare è un artista che segui da ormai più di dieci anni. Uno con i piedi per terra, che ti abbraccia quando ti rivede.






Non c'é da stupirsi che io mi sia emozionata, ai primi accordi di "Una Foto En Blanco Y Negro". Non l'avevo mai sentita, cantata da El Pescao. Non dal vivo. Quella canzone - e chi mi conosce lo sa bene - ormai per me trascende il mero concetto estetico. Non posso più essere sicura che mi piaccia in quanto tale, perchè ha smesso di essere combinazione di testo e musica dal momento in cui ha iniziato a proiettarmi in testa il film di tutta una vita. 

Una foto en blanco y negro sono io su un treno diretto a Trieste. Io aggrappata alle transenne in qualche posto della Spagna. Io che cammino da sola per le strade di Parma, felice, in un giorno di sole. Mi sembra quasi un essere vivo, ora che si è spogliata da ogni fronzolo elettronico. E, vestita com'è soltanto degli accordi di una chitarra spagnola, mi riassume in tre minuti il motivo per cui sono qui. 

Quando ho comprato il biglietto per assistere al live di David Otero per Live The Roof, non sapevo ancora se sarei potuta andare a Barcellona. Era il penultimo. "Al massimo lo rivendo", dicevo. Ma una parte di me ha sempre saputo che avrei fatto di tutto per non perdermelo.

Perchè, se scegli di andare all'estero per un concerto, dovresti far sì che almeno sia particolare. Diverso dagli altri. Degno, in sostanza, di un ricordo indelebile.

Questo lo è stato. E per quanto abbia dato sfogo al mio insito romanticismo, si è rivelato anche divertente come pochi. Sì. Perchè El Pescao - ho già avuto modo di dirlo - è diventato uno showman di quelli navigati. Uno che, a quelle cento persone su un tetto catalano, racconta aneddoti. Uno che ci chiacchiera e ci interagisce a suon di gag improvvisate con la suoneria di un cellulare, dediche a bimbi e bimbe che gli ricordano i suoi figli, cambi di look "in stile madonna" ed esilaranti siparietti che lo vedono interpretare (con voce in falsetto e doverosa imitazione dell'accento) una ragazza argentina. 





Di David Otero mi piace il fatto che trasmette allegria dentro e fuori dal palco. E' disposto a scherzare sui problemi tecnici, a condividerli col pubblico per non farne mistero. E poi sorride. Sorride sempre. Anche se dopo cento firme e cento foto verrebbe naturale immaginare la stanchezza. La voglia di andarsene. Di stare, semplicemente, un po' da solo. Invece lui ha una parola per tutti, una risata da dipingere su ogni singolo volto, anche su quelli che si sono attardati per guardare le luci della Barceloneta. Un'impressione positiva impossibile da non dare. 

Al concerto di Live The Roof ha offerto un campionario dei suoi successi rivisitati in chiave acustica. Un viaggio musicale che ha dato spazio alle hit piú conosciute della sua carriera solista (Castillo de Arena, Azul Y Blanco, Buscando el sol), alternando brani intimisti (La Luz Oscura del Mar, Cada Día, Me Da Lo Mismo, Cuando llegas tú) con le atmosfere più ritmate e scanzonate di pezzi come Pachanga o Peces Voladores, senza rinunciare a qualche salto nel passato con El Canto del Loco (El Pescao, Tal Como Eres, Volverá, Una Foto en Blanco Y Negro).

Senza altre parole, vi lascio qualche video.
Perché il bello dei concerti intimi al tramonto, lasciatemelo dire, é anche che le riprese riescono piuttosto bene. 










giovedì 6 novembre 2014

In un concerto può entrarci la vita: #LogicoTour a Conegliano

15 anni. Metà della vita. Mica un fardello da niente, riempirli di canzoni.

Voglio dire, quanto può cambiare una persona in quindici anni? Quanto sono cambiata io, con gli orizzonti sempre nuovi dentro a un trolley, le passioni che sbiadiscono, gli sbalzi d'umore? Io che andavo al liceo con una cassettina nel walkman, e mi portavo il lettore cd ad una gita in inghilterra. Io che ascoltavo l'iPod sul treno per l'Università. Quattro tracce per Trieste. Molte di piú per Parma. Almeno due album su di un volo per Málaga. Io che, nell'attesa di un corriere Dhl, ho installato Spotify pure sul cellulare. C'era la stessa voce, dentro. Sempre lo stesso timbro, a rincorrermi mentre crescevo. E ora mi sembra assurdo, se ci penso. Perché, in fondo, é una delle mie poche costanti. Perché c'é stato un suo concerto sullo sfondo di ogni tappa importante. Il primo. Il mondiale del 2006. I pianti catartici in teatro. Il rientro dall'Erasmus. C'é stato lui, puntuale come la più molesta delle sveglie, a ricordarmi il passato anche mentre lo ricercavo in altri lidi. Vorrei. Vorrei che sparisce dalla scaletta come Dicono di Me dai pre-concerti spagnoli. Proprio adesso che ho la sensazione – questa sensazione assurda – che un qualche tipo di cerchio si sia chiuso.




É passata quasi una settimana, dal live di Cesare Cremonini a Conegliano. Eppure, se ci penso, mi sorprendo ancora a sorridere tra me e me. 15 anni. “Ho la sensazione che mi abbiate dato fiducia”, dice ringraziando su quel palco enorme. Ed ogni volta é come se non fossero passati. Tra le transenne mi aspettano le stesse persone, gli stessi abbracci. Hanno il sapore dei ricordi condivisi, l'aspetto di un discorso da riprendere, lasciato in sospeso appena un secondo fa. Non é stato solo un bel concerto: é stata una bella giornata. Coi crampi alla pancia dal troppo ridere. Gli aneddoti sugli spara coriandoli comprati dai cinesi. I camerieri carini, i turni in bagno, la gente che li scambia per una processione finalizzata alle foto. Attese organizzate. Attese calme. File che hanno il sapore dei re-incontri e della gioia, malgrado tutti i lividi e i disagi. “Cosí ha senso”, mi scopro a pensare. “Era per questo che lo facevo”.




Poi le canzoni. Soprattutto quelle. Il film dell'esistenza che si srotola su un palco degno delle migliori star internazionali. Occupa da solo mezzo parterre, tra esplosioni di luci e pianoforti a comparsa. Una sorta di M rovesciata che lascia proprio a tutti, finalmente, il miracolo concreto di una bella visuale. Inizia, quel film, dietro ad una tenda bianca. La sagoma di Cesare in controluce sulle note dell'intro, e subito rischio, ancora una volta, di lasciarmi andare ai paragoni. Ma basta ascoltare le prime note di Logico, e ricordo dove sono. Non hanno senso, i paragoni. Perché Cremonini é uno di quegli artisti che si assumono il rischio di iniziare con una hit. La leggo come una sicurezza ferma, ai limiti di una giustificata presunzione. Come a dire “io me lo posso permettere”. A intendere che di canzoni buone ne ha abbastanza da non temere l'inizio col botto. Non calerá, il ritmo. Non si smorzerá l'entusiasmo. Vedrete.





E infatti. Si alternano come una collana di suoni psichedelici: Dicono di Me e il viaggio in autobus a Nerja; Stupido a chi e l'Arena di Verona; Vieni a Vedere perché e Dani Martín. Si palesano La vespa e i sedici anni in discoteca. Vent'anni per sempre, Il Comico, PadreMadre e un festival della Vodafone a Lignano, Latin Lover e l'incontro di Cesena, i brividi dell'immedesimazione filo-ispanica su Fare e Disfare. E ancora “I Love You” con lo strascico di un'intera estate, La nuova stella di Broadway che piace a mio padre. C'é spazio persino per “Il primo bacio sulla Luna”, che per me ha i tornanti e le distese verdi della strada per Ronda. Che mi spiazza, disorienta, e inevitabilmente mi commuove.

La miglior scaletta che abbia mai assemblato tra tutti i suoi tour, questo mi sembra. Perché non riesco a smettere nemmeno un solo istante di cantare a squarciagola. E mi si increspano i capelli per le gocce di sudore, tra i salti e riflettori che mi illuminano il viso. Mentre impreco in direzione del cameraman che mi incolla al maxischermo e mi condanna ai “ti ho vistaa”, mentre ad ogni nuovo accordo mi sfugge dalle labbra che “questa l'adoro”. Un repertorio ad alta densità di successi, che predilige i ritmi sostenuti e sa stupire anche in quelli piú distesi. Perché Io e Anna si accompagna a un video in bianco e nero dalla fotografia impeccabile, e racconta una storia piú di quanto il testo faccia giá. Perché al piano, questa volta, non ci sono Vorrei o Niente di Piú ma Una Come Te e Figlio di Un Re. Collocate dove non ti aspetti, colorate di una tinta nuova. Ecco, forse proprio “Figlio di un Re” é il brano che mi convince meno, perché ne amavo – soprattutto – le sonoritá corali che la versione intimista mi pare un po' appiattisca.

Peró fa niente, perché poi c'é Marmellata 25. C'é Cesare che si china a cantarmi negli occhi che “mi hai lasciato pure tu”, e io che rido pensando che, invece, la sua musica é una delle poche cose che non ho lasciato mai. C'é GreyGoose, ancora. C'é Mondo. C'é Un Giorno Migliore. Che, come tutte le tradizioni che si rispettino, é ormai da anni destinata a sigillare di speranza lo show.







Uno show che ha trasformato due ore in pochi minuti. 24 canzoni in una proiezione di polaroid di esperienze fatte. Una notte in hotel nell'insonnia dell'adrenalina.

Sono cambiate tante cose, in 15 anni. Ma la felicitá che mi ha avvolta a Conegliano dimostra (ed é rassicurante!) che ce ne sono certe destinate a non cambiare mai. E quindi Grazie. Ancora una volta é questa, la sola parola che mi sento di dire. 

domenica 19 ottobre 2014

Mi Teatro.

Prometteva di ricreare l'atmosfera dei concerti, il nuovo DVD di Dani Martín. E, in un certo senso, é stato così. Non credevo di poterla provare anche attraverso uno schermo, quella sensazione. La famigliarità dei volti in mezzo a cui sono cresciuta. Lo strano senso di conforto e appartenenza. Il sorriso ebete che, per due ore di fila, mi mette in pausa il resto della vita. Mi é sempre successo, ai live. Si accendono i riflettori, i primi accordi riempiono di storia un palco, ed io dimentico di colpo ogni fastidio. Deja vú. Ricordi inanellati nelle stesse quattro note. Sei lí, sei viva. Ti aggrappi a una transenna come fai con le illusioni. D'improvviso la tua rabbia sembra sbagliata e lontana. Perdono di significato, gli episodi che ti hanno strappato di dosso l'entusiasmo. Le delusioni che ti accorgi dipendere in percentuale eccessiva da parole altrui. "Sono un'idiota", ti ripeti. "Voglio riviverlo", ti sembra urlarti in faccia l'emozione. 




Per questo, soprattutto, mi é piaciuto "Mi Teatro". Non perché ci sono anch'io, a parlare di quella stessa sensazione in fila. Non perché la mia felicità trasuda in modo evidente nel veloce primo piano sulle note di "Mira la Vida". Anche se sarebbe stata una giustificazione valida, non è nemmeno perché si guadagna a pieno titolo la dicitura "italo-spagnolo" in virtù della regia. L'ho scoperto per caso,  merito di un accento un po' troppo rivelatore e di una successiva ricerca su Google: a curarla è stato Cristian Biondani,  italianissimo e già responsabile - tra altre molte opere impeccabili - del film in 3D del concerto di Ligabue a Campovolo. Ma no, non è per questo. Mi Teatro mi è piaciuto, essenzialmente, perché per 110 minuti sono riuscita a fingere che niente fosse cambiato. 




Certo, poi spegni la tv e l'effetto passa. Tanto ormai sono rassegnata a viverla in modo conflittuale. In bilico tra l'allontanamento imposto dalla crescita e la volontà di rimanere attaccata a qualcosa in cui ho investito quasi un decennio di vita. Lo so, che quando idealizzi troppo qualcuno e te lo buttano giù dal piedistallo niente può tornare come prima. E siccome cambio gusti, cambio ascolti, trovo sempre la stessa frase nel profondo dello stomaco. Estrapolata dal contesto, eppure crudelmente vera. "Così acido è il sapore della delusione". Giá. 

Forse è un bene, però. Perché se poi cullarsi nei ricordi riesce a restituirmi quelle sensazioni, allora vuol semplicemente dire che posso guardare agli eventi con un occhio più critico. Che posso provare (se non sempre riuscire) a separare la persona dalla musica, a riconoscere quello che non mi piace risparmiando il resto. A rinunciare - Alleluiah, alleluiah - alla visione distorta della fan in favore di uno sguardo finalmente obiettivo. 

Ci sono dichiarazioni su cui ho da ridire, in effetti, dentro a quel DVD. L'affermazione per cui ora "non c'è più isterismo tra la gente che si accampa fuori dai palasport", per esempio. Oppure quella, opposta e ribadita in più interviste successive, per cui un pubblico di quindicenni è il benvenuto, perché "garantisce alla mia musica un futuro"; "Perché mi fa vendere", anzi, meglio ancora. 

É vero, non c'é dubbio. Sarebbe ipocrita sostenere il contrario. Ingenuo pensare che chi vive di musica non aspiri a commercializzarla. A quale prezzo, però? 
Puntare ad un target di adolescenti urlanti vuol dire portarle ad identificarsi nelle canzoni che scrivi. Il che spiega, peraltro, il terrore dichiarato in un altro DVD. La paura di sistemarsi, mettere sù famiglia, perché "temo che non mi verrebbero più canzoni". Perché verrebbero, in realtà, ma affronterebbero altri temi. Racconterebbero storie che le ragazzine non vivono. Il contrario, però, rischia di allontanare (come in molti casi ha - ahimè - già fatto) le trentenni che con la musica de El Canto del Loco sono cresciute. Di escludere l'ondata di madri ultra- quarantenni che erano salite sul carro dei fan all'uscita di Pequeño e che si sono volatilizzate, veloci com'erano venute, al comparire del ciuffo e dello styling per gli abiti di scena. 
É una scelta, e come tale va rispettata. Le adolescenti, però, sono umorali per definizione. Continueranno a seguirlo, quelle che ora si scrivono il suo nome sulla fronte? Se non lo faranno ne arriveranno altre, pazienza. Ma per quanto tempo ancora? Se si stuferanno, un giorno, cosa rimarrà? 

Non dovrei chiedermelo, lo so. Non dovrebbe importarmene. Non dovrei sentirmi dispiaciuta alla sola idea come se su quel palco ci fossi io. É questo il mio problema: che, nonostante le delusioni, di questa storia mi sento ancora parte attiva. Coinvolta ed incapace di indifferenza alcuna. 






E ad ogni modo resta bello, poter dire "io c'ero". Farsi venire la pelle d'oca davanti all'interpretazione di Gretel in duetto con Axel (Axel e Gretel: non fa ridere anche voi?). Sentire l'esigenza di indicare con orgoglio quel tizio con gli occhi azzurri mentre canta "Señora" con Serrat. Incoerente con tutti i pensieri pregressi insistere orgogliosa che "vedi, vedi? Ce l'ha fatta! Vedi? Lo vedi quante emozioni arrivano, da lí?". 

Dovreste comprarlo giá solo per quei due momenti, il DVD di "Mi Teatro": Per Gretel e per Señora. E poi per le altre imperdibili chicche. Tipo "Contigo" di e con Sabina. "Terriblemente Cruel" di e con Leiva. La mia faccia sconvolta che mi apre un indiscusso futuro nel cinema (di genere horror). La performance flamenca improvvisata nei camerini. O, ancora, la rivelazione inedita di un episodio imbarazzante avvenuto durante un concerto a Mallorca, fatto di pantaloni strappati e di mutande assenti. Che, tra parentesi, leggo come una chiara pulsione al masochismo. Perché, a meno che non sia un modo morboso per strappare altri urletti alle adolescenti, a me qualche domanda la impone. Voglio dire: io non sono un uomo, ma non dev'essere quantomeno scomodo se non dolorosissimo portare gli skinny jeans senza mutande? Mah. 

E, tanto per restare in tema di Domande Esistenziali, ce ne sono due a cui non avremo mai risposta: 

La strada che percorrono con il furgoncino é inquietantemente poco varia in quanto a panorama, o hanno passato un'ora a girare su se stessi? E, soprattutto, come diavolo fa a rimanergli intatto il ciuffo dopo 3 ore di show, se io dopo cinque minuti ho in testa un cespuglio degno del migliore performer reggae? Dopo tutti questi anni, almeno un prodotto per capelli, Dani, potrebbe anche consigliarmelo. Che diamine. 

lunedì 8 settembre 2014

In Cile Veritas.

Sensazione strana, quella della fiducia ripagata. 
Ti vien voglia di gridarla ai quattro venti. Condividerla, orgogliosa, negli "avevo ragione". 
Che poi tu mica c'entri. Non hai fatto proprio nulla, se non pagare (e dieci euro, mica un capitale!) per un pre-ordine su Amazon. No. La tua sola parte attiva nel progetto, se mai c'è stata, si è limitata all'assillo dei tuoi rassegnati amici, quelli che ancora si chiedono - poracci! - quand'è che smetterai di vivere laddove un palco muore. 
Eppure eccoti qui, esaltata come le due quindicenni che ami affermare ti compongano i trent'anni. Ridicola, probabilmente. Ma, fuori da ogni dubbio, sollevata. 




Dovevo parlarne, perciò, del nuovo album de Il Cile. Ci ho riservato un primo ascolto febbrile, costruito di attese protratte e curiosità nutrita di commenti positivi. I mezzi erano quelli che erano. Un paio di cuffie intorcigliate. Un vecchio computer ormai talmente scassato da impedirmi di fissare altro che non fosse la schermata di Spotify (alla lunga, interessante quanto la vernice che si asciuga). Si impallava, ad aprire altre finestre. Evitava, da solo, qualsivoglia distrazione. E allora ci ho chiuso gli occhi, su tutto quel nero. 37 minuti di pausa dal mondo. Un incresparsi di brividi che è iniziato ad accentuarsi già al crescendo musicale di ascoltando i tuoi passi.

Dietro a In Cile Veritas c'è, nel complesso, un cantautore più positivo e leggermente meno criptico di quello conosciuto con Siamo Morti a Vent'anni. Di quel disco però conserva e ulteriormente affina le caratteristiche essenziali, in una tensione al miglioramento che - come ho scritto più volte - è in ogni campo artistico la sola cosa in grado di garantirti un futuro. Il timbro vocale, per esempio, resta inconfondibile nel suo spezzarsi arrugginito e roco. Si fa, però, più rotondo e pieno, più sicuro di sé, capace di virtuosismi assenti nell'opera prima. I testi stessi, per quanto sembrasse difficile, eguagliano - se non addirittura superano-  in profondità quelli a cui ci aveva abituati dal 2012 di Cemento Armato. Versi da pelle d'oca sono disseminati qua e là a densità talmente elevata da rendere difficile la scelta ogni volta che vorresti citarne qualcuno. Malinconia, tenerezza ed ironia ci si alternano dentro a comporre un quadro che, come solo Il Cile riesce a fare, racconta una generazione intera semplicemente parlando di sé. Ascoltate Liberi di Vivere e capirete cosa voglio dire. 

A livello tematico, l'alcol è il filo conduttore che lega sottilmente le 10 tracce, giustificando il titolo dell'opera e la scelta (discussa e forse discutibile) del primo singolo estratto. Bicchieri consolatori di Jack Daniel's, tequila, bottiglie vuote ed anime ad alta gradazione sono, a ben vedere, il fondale di un'unica storia che si snocciola poetica e viscerale in collane di parole da perdercisi dentro.  Una volta mi ha detto, Lorenzo Cilembrini, che quando scrive abbonda in "labor limae". Beh, secondo me in questo disco si nota e gli è riuscito più che mai. 

I brani migliori? Personalmente direi "Parlano di te", il momento più alto di tutto l'album. Crepuscolare nei suoi piatti da lavare; visivo nel suo descrivere di oggetti e situazioni comuni la fine di un amore; semplicemente lirico già dalla prima strofa, che anche slegata dalla melodia è un dipinto prezioso a pennellate di parole. 

"Luglio coi suoi passi felpati sulla terra secca e l'asfalto con le rughe, mi prende ogni volta alle spalle come i brividi delle mie paure". 





Per non citare "Parlano di te queste stelle ormeggiate in un mare al contrario di una notte d'estate", una delle mie frasi preferite in assoluto assieme a "Ogni volta che ti osservo nel mio sangue si scioglie la Luna" di Vorrei Chiederti (ribadisco: sono una romantica, che ci volete fare?) 

Poi "L'Amore è un suicidio": la botta di vita del disco, la sferzata di energia rock, l'irrinunciabile parentesi ironica in cui riversare fiato e polmoni. 





Un'Altra Aurora (PS: correggete il booklet, c'è un refuso!) sorprende nel suo rivelare un Cile tutto sommato finalmente sereno. Perché la cerca così tanto che "si ammazzerebbe", sì. Raccoglie i suoi rottami, e lascia le unghie sulla parete. Ma poi ringrazia la sua vita e si perde nell'immenso di ogni suo sorriso. Orecchiabile e destinata ad incollartisi dentro, con quel suo nananananananana che ti condannerà a canticchiarla fino alla perdizione. 




E ancora "Sapevi di Me", il singolo attualmente in rotazione. Quello che mi ha sciolta, conquistata e catturata fino a diventare il mio mantra personale. Il biglietto da visita vero che apre In Cile Veritas con quella che è a conti fatti una sorta di seconda parte del brano, omonimo, che dava il via a "Siamo Morti a Vent'anni". 




A convincermi un po' meno è invece Maryjane. Leggermente modificata in alcune parti del testo rispetto alla versione che ci aveva regalato Il Cile in un video su Facebook. Carina, senza dubbio. Ma, forse anche perché priva del fascino della scoperta, di livello lievemente inferiore alle altre. 

Baron Samedi perde un po' la carica esplosiva che ha nella versione live, la dirompenza di quel video consumato di play. Ma è comunque bello avere finalmente incisa la frase in cui , sin dalla primissimo ascolto, mi sono ritrovata più che in qualunque altra. Perché anche "Il mio cervello è una centrale nucleare con le scorie da smaltire" e ogni volta che l'ascolto mi sento un po' meno sola. 





"Sole, Cuore, Alta Gradazione", infine. Quel singolo che, col senno di poi, forse non era il più adatto ad introdurre l'album. Non per il brano in sé (che a me è piaciuto subito, e continua a piacere) quanto per le reazioni avute. Chè sono stati in molti a non averlo capito. Si sono soffermati all'involucro di sonorità radiofonicamente accattivanti per non arrivare a cogliere la derisione intrinseca, parodica e satirica, del testo. Chi si aspettava il ritorno del tizio di Cemento Armato ne è rimasto a volte un po' deluso, ed è un peccato perché quel tizio, invece, ne "In Cile Veritas" c'è tutto, dal primo all'ultimo di quei trentasette minuti. Ed io, ascoltandolo, riscopro nei suoi confronti quella stessa ammirazione assoluta e  intimidita che provai quando, in auto verso Gorizia, inserii per la prima volta "Siamo Morti a Vent'anni" nello stereo. 

Chè certe parole, non si sa come, ti specchiano. Cambiano. Toccano dentro. E Il Cile, con me, è riuscito a farlo di nuovo. Ha dichiarato, a La Stampa, che scrivere  "è quello che so fare, non so fare altro". Posso solo augurargli di non smettere mai. 


giovedì 7 agosto 2014

El Pescao, il coraggio e l'aura.

L'aura serve a mantenere le distanze. É lei che fa di te una superstar. Immateriale, però la percepisci. Scia di successi e stili di vita, specchio di ammirazione in occhi altrui. Aura. Io, almeno, la chiamo così. Ce l'hanno tutti quelli che – loro malgrado- un po' ti fanno sentire inferiore. Quelli che impongono un po' piú del rispetto, insomma. Quasi una sorta di timore reverenziale. L'aura ti fa balbettare, arrossire, sentire inadeguata. Non la scegli, ce l'hai e basta. E David Otero, grazie al Cielo, non l'ha avuta mai.

Forse si spiega cosí, l'assenza di isterismo nel suo pubblico. Cosí diverso da quello de El Canto del Loco. Di suo cugino. Di chiunque si trascini dietro urletti e scritte sulla fronte. I fan del Pescao sono posati. Mediamente trentenni. Comunque eterogenei in interessi e demografie.

L'assenza d'aura: a conti fatti é questa, una delle cose che piú mi mi piace in lui. Non ti fa pesare le classifiche, i traguardi, la misteriosa magia dell'esercizio creativo. Perché é una professione, punto e basta. La svolge, non lo definisce. Perciò, davanti a te, resta soltanto un ragazzo comune. Con un sorriso contagioso. Una t-shirt ironica. E tutto l'agio del sentirsi alla pari. Impossibile non chiacchierarci con naturalezza. Frenarsi di imbarazzi inutili nello scambiarci opinioni. David, El Pescao, é un ragazzo degli anni ottanta i cui occhi si illuminano d'amore quando nomina i figli. É solo questo e molto piú di questo. Un artista eccletico d'animo gentile, a cui non manca nulla tranne i tratti del divo.




L'ho visto cosí, ancora una volta, in un edificio anonimo del quartiere di Carabanchel. Il deserto dei passanti tra le industrie. Qualche bar scarsamente frequentato. E poi la sala prove, messa a disposizione da un amico per il tempo necessario al mio premio. L'ho usata anch'io, la creativitá. Oh, sí. Mi é servita ad ascoltare il disco in anteprima. Due mesi prima dell'uscita. Assieme ad altre dieci persone, due ragazze che svolgono grossomodo il mio stesso lavoro, e un paio d'altre facce note dello staff. Ero lí perché ho partecipato ad un concorso: si trattava di esprimere, in qualunque modo volessi, la ragione per cui avrei voluto viaggiare a Londra con El Pescao. Ho usato un programma per disegnare fumetti. Ci ho mescolato ironia. E mi é valso una sedia in plastica, nel cuore di una torrida Madrid, davanti al tasto play di un Mac.






L'ho giá scritta per Total Free Magazine, la recensione di Ultramar. Sarebbe inutile, monotono e vagamente controproducente ripeterne i contenuti anche qui. Peró c'é un'altra cosa che mi piace, in David, oltre all'assenza d'aura, ed é il coraggio di sperimentare.

Ché, in qualsiasi campo artistico, la sfida é andare avanti. O, almeno, ho sempre pensato che dovesse essere cosí. Se ti limiti a riprodurre all'infinito la formula del tuo successo non ne avrai soddisfazione. E, al contrario di quello che si crede, a lungo non ne avranno piú neanche i tuoi fan. Puó piacerti il panino con la mortadella. Piacerti da morire. Ma prova a mangiarlo tutti i giorni, pranzo e cena, per settimane e settimane. Dopo un po' ne avrai la nausea, é inevitabile. Uscirai a far la spesa e comprerai il prosciutto. O una scatola di sofficini, magari.

Cambiare, invece. Metterti alla prova. Ecco...é questo che fa di te un artista vero. Perché il nuovo lavoro potrebbe non piacere. La gente potrebbe dirti “era meglio il primo”, schiacciarti l'autostima, scaraventarti dai palasport gremiti ad una sala con meno di dieci spettatori. Perché ci pensi e fa paura. Talmente tanta paura che ti metti a disegnare come un esercizio zen per ritrovare la calma. Ché ci sei tu, in ballo. I tuoi soldi. Il tuo futuro. Ché sarebbe stato piú facile restare con la Sony, rinnovare il contratto, accettare i meccanismi di sempre.

Peró ci avrai provato, accidenti. Comunque vada potrai dire di averlo fatto. Di aver inseguito i tuoi obiettivi e le tue pulsioni, non quelle di qualcun altro. Al di lá del fatto che il nuovo album de El Pescao mi piaccia da morire, per me é giá questo a valergli il piú grosso degli applausi. La piú grande delle ammirazioni.

Perché David é tendenzialmente una persona pacata. Ride, scherza, difficilmente lo vedi litigare con qualcuno, quasi mai risponde a troll e provocazioni sul web. E allora ti verrebbe da descriverlo in leggerezze, lui che – al contrario – mette in ció che fa tutta la serietá e la professionalitá possibili.

E va a scuola di canto per migliorare quello che non lo convince. Si trasferisce in un'altra cittá per potersi ripulire da tutto in cerca dell'ispirazione. Cerca nuovi sound nelle stoviglie e nei dischi che ascolta; nelle strade; nei talenti poco noti a cui chiede di collaborare con lui...No, credetemi: David della leggerezza non ha niente. Piuttosto, ha impegno, sogni e determinazione che vorrei potergli rubare anche per me.





Abbiamo incontrato una persona della Sony, a pochi metri da quell'edificio di Carabanchel. Un volto noto, un incontro costante ai concerti, sin dai tempi de El Canto del Loco.

“Che ci fate qui?”
“Eravamo all'incontro de El Pescao.”
“Perché, che incontro ha fatto El Pescao? Ma dove? Proprio qui?!”

Ho letto il suo stupore come la fine di un'Era. La coincidenza, come un'assurda burla del destino.

A quindici giorni esatti dal mio rientro, le cronache di un viaggio mi sembra doveroso concluderle cosí.